In questa sezione i Sass Balòss pubblicheranno i loro racconti e i loro aneddoti
che sono nati durante le uscite in montagna.

Titolo Autore Data
Il bacio della morte Will 25 dicembre 2018
I tre re di Affi Will e Alessandro Spinelli 20 novembre 2018
L'ultima estate da bambino Omar 6 novembre 2018
Mondi paralleli Omar 20 luglio 2018
10 Anni Will 1 febbraio 2016
Un Nuovo Risveglio Will 5 novembre 2014
Il Guardiano della Diga Omar 26 marzo 2014
Sabbia Will 16 gennaio 2014
Il Silenzio dei Colori Will 8 marzo 2013
Ventanas Will 10 febbraio 2013
Ostinatamente Controcorrente Will 25 dicembre 2012
Istanti Will 1 ottobre 2012
Solo Will 27 luglio 2012
Frecciarossa 9610 Will 25 luglio 2012
Brace sotto la cenere Omar 14 giugno 2012
I cento anni del CAI di Reggio Will 6 giugno 2012
Linee e Chiodi Will 10 gennaio 2012
Vittima o carnefice? Omar 1 novembre 2011
Poesia Nuvolarossa 31 agosto 2010
Riflessioni Nuvolarossa 30 agosto 2010
Ebano Will 22 dicembre 2009
Aria Frizzantina Will 2 novembre 2009
Valerio Fontana Will e Paolo Grisa 25 aprile 2009
Il Sasso Errante Omar 24 aprile 2009
Un Nuovo Mattino Paolo Grisa 22 aprile 2009
Solitudine by Night Will 23 luglio 2008
Mani Rosse Omar 24 febbraio 2008
Bertoldo ed il Sasso Errante Nuvolarossa 26 agosto 2007
E allora scrivo Omar 27 luglio 2006
Il vecchio Will 23 aprile 2006
Il passero e l'avvoltoio Omar 23 gennaio 2006
El arca de los vientos Ermanno Salvaterra 6 dicembre 2005
La prima volta... Will 5 luglio 2005
2150 Omar e Gölem 2 maggio 2005
Il risveglio del Gigante Nuvolarossa 11 marzo 2005
Lucy in the sky Omar 11 febbraio 2005
Uomini e pietre Gölem 4 gennaio 2005
Lo zaino del Pio Omar 17 settembre 2004
Una gita in compagnia di me stesso Gölem 11 agosto 2004
Lacrime di San Lorenzo Gölem 11 agosto 2004
La Rompiscatole Omar 4 agosto 2004
Delirio Will 18 luglio 2004
Non Sense Omar 9 giugno 2004
L'importante è tornare a casa Omar 19 maggio 2004
Ricordi Felini Omar 23 marzo 2004
La Maledizione della croce spezzata Gölem 12 marzo 2004
Meglio tardi che mai... Omar 11 marzo 2004
Grazie Trezzo! Will 23 febbraio 2004
Il canalone Omar 8 gennaio 2004
La morte può attendere Will 7 gennaio 2004
Voolaareee... oh oh Omar 13 dicembre 2003
Attese e ritorni Omar 10 dicembre 2003
Testaman Gölem 9 dicembre 2003
Indignato speciale Will 6 dicembre 2003
La ragazza delle mutandine Gölem 30 novembre 2003
Ecco la verità! Nuvolarossa 28 novembre 2003
Grazie socio! Omar 27 novembre 2003
L'omm del nebbiù Gölem 25 novembre 2003
Fatto Gölem 7 luglio 2003

 

L'omm del nebbiù
di Gölem

A cavallo tra Valle Camonica e Valtellina c'è un verde altopiano, in estate una distesa di torbiere costellate di eriofori, pascoli fioriti e malghe isolate, in inverno una terra desolata ricoperta dalla neve, con creste e rocce che affiorano qua e la dalla coltre.
Di gente in inverno non ce n'è neppure l'ombra, trovare orme sulla neve è un evento raro, gli alpeggi sono abbandonati così come sono abbandonate dagli escursionisti le cime che si innalzano tra una valle e l'altra.
Una di queste cime è il Monte Pagano, la cui vetta è circondata da una singolare fortificazione circolare, eretta nella prima Guerra Mondiale nel caso in cui i fronti dell'Adamello, del Tonale e del Gavia avessero ceduto. Così non accadde, e probabilmente sulle linee del Mortirolo non si sparò un colpo, di morti nemmeno l'ombra.
A meno che non si vada indietro al 774 quando i soldati di Carlo Magno massacrarono i fedeli del duca d'Aumont.
Oppure più appresso ai giorni nostri, quando tra il 1943 e il 1945 un gruppo delle Fiamme Verdi combatteva la resistenza contro i nazifascisti, la Battaglia del Mortirolo è ritenuta la maggiore battaglia combattuta in Italia da partigiani.
Senza andare troppo lontano, poco tempo fa siamo saliti anche noi al Mortirolo, con l'idea di salire una bella cresta innevata, bella facile: il Monte Pagano.
Da Monno in pochi chilometri siamo al Ponte Palù (1630 mt), dove parcheggiamo. Poi su lungo la selvaggia e verdissima Val Varadega, sprofondando qua e là nei pantani alimentati dal torrente.
Giunti alla strada che porta dal Passo del Mortirolo al Pianaccio la imbocchiamo verso destra, l'asfalto non disturba perché da qui in poi si cammina sempre sulla neve.
Camminando nella nebbia sempre più fitta raggiungiamo Malga Salina bassa (2144 mt).
Comincia a piovigginare.
Ancora un po' lungo la strada innevata, ora il passo si fa un po' più incerto perchè la neve è più alta, abbandoniamo la strada salendo il ripido pendio nord del Monta Pagano, che ci condurrà alla cresta finale.
La nebbia ci toglie il piacere del panorama, che possiamo solo immaginare, ma ben presto siamo all'attacco della cresta.
La cresta è poco affilata, anche se con molta neve, temevamo peggio, si lascia salire.
La fatica si fa sentire e con la nebbia che non permette di vedere più in la di 5 metri Ci chiediamo se raggiungeremo la vetta, stiamo per rinunciare, ma poi la nebbia si dirada un po', forse la cima è lì a due passi, proseguiamo ancora.
La cima c'è ( 2348 metri ), e il suo sinistro muro di cinta pure.
Un mucchio di pietre con una bandiera è posto sul punto più alto della montagna.
Felici ci apprestiamo a scendere per lo stesso percorso, il gruppo si sgrana in due gruppetti di due persone, io e Omar più avanti e poi più attardati Bertoldo e Luca.
Lo spazio d'aria tra un banco di nebbia e l'altro, il minimo sufficiente per gettare uno sguardo a destra, a sud, e Omar mi dice che c'è qualcuno.
Io ho gli occhiali incrostati di ghiaccio ma ci vedo, strabuzzo gli occhi e qualcosa c'è...
Vedo un sagoma, pare di una persona, e si sposta dalla mia destra alla mia sinistra, allontanandosi.
Sarà ad una distanza di dieci metri e barcolla un po' mentre si sposta, il passo comunque è svelto.
Riesco a distinguere un grosso zaino con due oggetti allungati che sporgono, le braccia, o quello che mi sembrano le braccia, a penzoloni.
Poi la nebbia si infittisce e non vedo più nulla, chiedo a Omar cosa ha visto, mi dice un uomo con degli sci in spalle, o forse dei bastoni, ma non ha visto bene.
Di nuovo uno sprazzo sgombro di nebbia, è ancora lì, ma si è spostato più lontano, è quasi invisibile a quella distanza.
Lo chiamo ad alta voce, saluto, mi deve sentire per forza a quella distanza!
Ma niente, sparisce di nuovo nella nebbia per non comparire più, il cielo è già stato troppo clemente,
Ci raggiungono Luca e Bertoldo, non hanno visto nulla, sarà stata una roccia, ci dicono.
E poi, è impossibile che una persona cammini lì nella neve, senza lasciare alcuna impronta, e soprattutto, sull'orlo del precipizio, che dalla cima del Monta Pagano precipita giù quasi verticale.
Sconcerto, e poi dubbio insolubile, ma bisogna ancora scendere.
Percorriamo in discesa tutta la cresta, ma io ci penso ancora.
In poco tempo siamo già alla macchina, possiamo rientrare.
L'altopiano può tornare al suo cupo silenzio, noi ce ne andiamo.
Per altri mesi sulla montagna non salirà nessuno, e solo il cadere immutato dei fiocchi di neve e le gelide raffiche di vento scuoteranno il forte sulla vetta, testimone di pietra di gente che è passata e che, talvolta, ancora passa.

Mi piace pensare che, forse, con la nostra presenza, almeno per un giorno, abbiamo fatto compagnia a qualcuno.

 

 

Fatto!
di Gölem

Ci sono salito sopra.
Finalmente.
Io avevo sempre pensato, fin da piccolo quando lo avevo visto dal basso, solitario tra le nuvole, che un giorno lo avrei salito, e che poi avrei anche potuto smetterla di alzarmi presto al mattino, di sfacchinare per ore sui sentieri, perché tanto ormai il più era fatto.
Chissà, forse avrei anche potuto iniziare a fare dell'altro.
Magari, mi sarebbe piaciuto imparare a portare una barca, a sciare oppure anche solo a dipingerle, le mie montagne. E che ci poteva essere di meglio da fare nella testa di un ragazzino che ama la montagna? Cosa ci poteva essere di più sublime e grandioso ed eterno del mio svettante Campanile?
Forse qualche volta ho anche giurato che era l'ultima volta che mi ficcavo nei pasticci, per i monti, sotto un acquazzone o oggrappato con le unghie e con i denti alle rocce, ma con la testa già in macchina o sotto la doccia.
Ma sì, l'ho anche mandata a quel paese la montagna, lei e tutte quelle sue magnifiche vette disseminate per le Alpi. L' ho maledetta, e lei ogni volta mi perdonava quando la domenica con le orecchie basse per la vergogna tornavo a calcare i suoi sentieri. Ho detto che fatto quello ne avrei avuto abbastanza.
Però ho mentito.
Credo che andrò avanti ancora un po' ad andare per monti, dopotutto.
 

 

Grazie Socio!
di Omar

Faceva freddo quel giorno.
Eri ridicolo con la nebbia congelata sul passamontagna blu. Già, ridicolo perché non vedevo la mia faccia raffreddata e stanca. C'era ancora un poco da salire e la neve cominciava ad essere farinosa, troppo farinosa e sotto gli scarponi mancava spesso l'appoggio sicuro.
Eppure si saliva ancora.
Va bene rinunciare una volta ad una cima. Ma rinunciarci due volte nel giro di pochi giorni sarebbe stato umiliante…
Quindi si saliva, ancora un po'. Magari poi migliora, magari siamo quasi arrivati, magari il sentiero diventa più agevole, magari la neve diventa più dura e sicura, magari…
Già, magari invece peggiora. E peggiora…
Cosa facciamo? Non mi piace questa sensazione di scivolare ad ogni passo. Guarda a sinistra, se parto qui, non mi fermo più! Però la zona mi piaceva e piaceva anche a te. Pareva di essere in dolomiti. La nebbia adesso andava e veniva. In fondo abbiamo sempre sognato situazioni un po' così… Che sogni da str...
Non preoccuparti, ci siamo, guarda l'altimetro. Dovremmo esserci.
Capita spesso che ci si rilassi, che si creda di essere fuori dai casini, che ormai sia fatta. Con quale sesto o settimo senso poi? Alla mia sinistra il pendio era ripido. Ripido è dire poco e mentre ci camminavamo accanto pensavo che a casa mia faceva caldo, alla macchina mi aspettava la classica nostra torta, che il giorno dopo tornavo in caserma. O forse ricordo male e non pensavo a tutto questo, forse pensavo solo di andarmene da lì.
Volo…
Verso sinistra…
Ma perché verso sinistra…?
Perché non in avanti o a destra…?
Lo sapevo, te l'ho appena detto che…
Scusatemi, scusami se ho sbagliato ad appoggiare il piede, scusami se sto scivolando verso chissà cosa.
Vedo le rocce però sotto di me, le avevo viste prima mentre salivamo, e dopo le rocce c'era il vuoto. Merda il vuoto…Che vergogna. Scivolare così, su questa neve, su questo sentiero , in mezzo a queste montagne quasi di casa, a questa quota, in questo punto, in questo istante.
Vergogna di cosa non lo so. Eppure scivolo... verso sinistra. Sinistra... pendi ripido... rocce... vuoto... vergogna... torta... caserma...
Non si pensa a niente in certi momenti. Credo...
Manovra di auto-arresto un corno. La neve era molto fredda e così polverosa da entrare ovunque. Sembravo una tartaruga capovolta con il mio zaino-guscio.
Non era più bello lì. Non era come in dolomiti. Non c'era più nessuno accanto a me.
Caz... non scivolo, non volo, non rocce, non vuoto.
Qualcosa dall'alto mi trattiene. Cosa cavolo mi trattiene…Cosa mi separa da quello che ormai era il mio pendio, le mie rocce, il mio vuoto?
Muoviti!! Non ce la faccio più!!
La voce viene dall'alto, un po' ridicola camuffata dietro un passamontagna blu mezzo congelato.
Giro la testa all'indietro e, capovolto, vedo un braccio che trattiene il mio zaino. Sopra c'è solo la nebbia, fitta ora. Molto fitta.
Muoviti!!
Lasciatemi godere questo momento, per un decimo di secondo ancora. Lasciatemi pensare che anche oggi tornerò, grazie ad un braccio. Arranco all'indietro sul mio pendio, annaspo nella neve farinosa e scivolosa, risalgo verso il sentiero coperto dalla stessa neve che mi ha tradito.
Sono seduto in mezzo a questa neve fredda e traditrice, su questo monte che mi voleva fregare, tra questa nebbia che mi odia, schiaffeggiato da un vento che non mi voleva più, non mi accarezzava come altre volte. Tutta colpa della neve, del ghiaccio, degli scarponi, del vento…O forse è solo colpa mia?
Grazie socio…
Ricominciamo a salire.

 

Ecco la verità!
di Nuvolarossa

Ciao, sono Cristina!
Ho saputo che durante la tua lunga permanenza in sud America Matteo ti ha scritto molto a mio riguardo.
Ho saputo che ti ha raccontato di quando ci siamo conosciuti, quell'uggiosa giornata passata girando sotto la pioggia e il freddo tra i monumenti di Firenze, ma diventata molto solare quando ho incontrato lui, il mio Grande Amore!!!
Ho saputo che ti ha raccontato dei due bellissimi giorni successivi, prima che lui ripartisse per Bergamo, quando cercavamo scuse per sottrarci ai vostri amici e ai musei che restavano da visitare per poter passare qualche ora assieme.
Ho saputo che ti ha raccontato di tutti i week-end in cui lui, molto teneramente, si recava da me a Siena per passare del tempo assieme nonostante la lontananza…qui nel mio agriturismo, dove sicuramente già si pensava ad un posto per te al momento del tuo rientro.
Ho saputo che ti ha raccontato dei nostri momenti critici, perché in tutte le storie ci sono dei momenti critici. Specialmente quando, ad aumentare questi rischi, c'è la lontananza ed una ragazza che per quanto amore provasse non era disposta a viaggiare così tanto.
Ho saputo che ti ha anche raccontato della nostra rottura! eh si, perché alla fine, forse eravamo troppo diversi, o forse semplicemente troppo lontani….
Ed anche dei vari tentativi di riappacificare gli animi, tra i quali quello famoso con un incontro giovanile a Roma col Papa!
Ho saputo infine che ti ha anche raccontato che io sono stato il frutto di una birra di troppo tra i tuoi amici, successivamente alimentato dalla voglia di tenerti sulle spine fino al tuo rientro per dirti che:
Io non esisto!!!

 

La ragazza delle mutandine
di Gölem

Pioveva a dirotto quel giorno di estate, eppure, per una qualche ragione, si era partiti lo stesso da Brescia, e, peggio, dal rifugio Bedole dove avevamo parcheggiato.
No, il tempo consigliava di infilarsi in una delle numerose buone trattorie del Trentino, o di tornarsene mestamente a casa.
Però l'Adamello era una cima per noi ambita, il puntino più irriverente e più baldanzoso che avevamo disegnato già nel lontano 2000 sulla Mappa dell'ufficio OBS al Distretto (*).
Andava fatto, volenti o nolenti, e poi, magari, il giorno successivo avrebbe fatto bello.
Partiti dunque dal rifugio Collini al Bedole, l'idea era di tirare dritto fino al rifugio della Lobbia, ma era chiaro fin dal principio che non ce l'avremmo fatta, troppo tardi, troppa pioggia, nebbia sul ghiacciaio finale.
Arriviamo - si pensava - fino al rifugio Città di Trento al Mandrone, e poi l'indomani mattina presto via per il tappone finale (che si rivelò poi essere, al ritorno, la nostra Ritirata in Russia).
Il sentiero che sale al Mandrone è molto bello e panoramico, in un bel bosco di larici nella parte bassa e poi sui pascoli che digradano verso il fondovalle nella parte alta, dove ci si affaccia sulle tre Lobbie e sulla lingua terminale del Ghiacciaio del Mandrone, approssimandosi al rifugio.
La caratteristica principale del sentiero tuttavia sono i tornanti, centinaia di tornanti secchi.
Non finiscono mai, soprattutto quando piove e hai l'acqua fredda che ti entra da tutte le parti, colando sul collo a sotto le ascelle ai piedi.
Mi trascinavo per i tornanti pensando alla cena che ci aspettava al rifugio, mentre per la condensa creata dalla mantella ero bagnato anche sotto la stessa, in faccia gli occhiali appannati, sulla testa i capelli appiccicati.
Omar se ne era andato in fuga, lasciandomi indietro ad arrancare.
E' furbo questo ragazzone, deve avere pensato che se fa più in fretta si bagna di meno...
Ma come mai io che mi sento pure abbastanza intelligente non riesco ad andare più forte di così?
Fa niente, avanti
Tanto mi aspetterà più avanti, forse.
E infatti mi ha aspettato.
Lo becco parecchio oltre, fermo sul sentiero, poco prima del rifugio.
Dal sentiero, sotto l'acqua, sta scendendo qualcuno.
Raggiungo il compare mentre questi arrivano da lui.
Omar è immobile e li guarda passare; io come lui non mi riesco a muovere, della pioggia battente non me ne frega più nulla.
Era un ragazzo sui 25 anni, altro di lui non ricordo.
Mi ricordo bene invece della sua morosa.
Sì, perché era una bellissima ragazza, ma soprattutto perché era mezza nuda.
Indossava una magliettina bianca completamente bagnata dalla pioggia, e, sotto, niente di meno che delle graziose mutandine.
Bianche, e ovviamente bagnate pure loro.
E' passata via come un alito di vento, infreddolita e con un bel sorrisino mentre mi salutava, e dietro il pirla del suo moroso.
Mentre passava io guardavo, mentre guardavo lei passava.
Poi è passata, e svoltata una curva è uscita dalla mia vita.
Guardo l'Omar che non ha ancora chiuso la bocca, se non la chiude in fretta annega, visto l'acqua che viene giù.
"Hai visto", gli faccio, "era nuda".
"Ma... perché ?"
Ci sono domande alle quali non si può rispondere.
Devi prendere atto dello stato delle cose e tirare avanti.
Così noi abbiamo fatto.
Siamo partiti di buona lena e il rifugio ben presto era raggiunto.
Mai corso così forte...

(*) Gölem e Omar hanno dato inizio (forse e inconsapevolmente) alle prime uscite dei Sass Balòss, annoiandosi insieme a morte nell'Ufficio Obiettori del distretto Militare di Milano, dove facevano servizio di leva come fanti dell'Esercito Italiano.
La Cartina, che riporta il timbro originale del Ufficio Comando, fu realizzata fotocopiando e incollando (a spese dello Stato) le varie cartine che erano alloggiate nei cassetti del Caporale Brumana e del sol. Losio, ed è un cimelio storico che è conservato presso il domicilio dell'Omar, sul quale ancora annota le uscite.
 

 

Indignato speciale
di Will

Quando uno di noi ha bisogno di cambiare l'acqua al proprio pesciolino generalmente usufruisce della prima pianticella che trova sul sentiero.
Ricordo bene quel giorno a Zermatt quando Gölem cercava disperatamente un alberello, ma si accontentò del grande masso posto sulla sinistra del sentiero. Prima di aprire i condotti dell'acqua il suo occhio cadde su dei piccoli fogli (forse rilegati) che sbucavano dalla base della roccia. La sua mente pensò a tutto. “Forse mi trovo davanti ad un testamento, forse si tratta di un diario scritto da qualche ragazza per il suo uomo, forse un quaderno di scuola di qualche ragazzino con un brutto voto”. La sua mente era sicuramente confusa e impegnata ad immaginare. Passarono dei minuti prima che Gölem smise di sognare ad occhi aperti e si abbassò per indagare meglio sul contenuto di quei fogli.
Io e Luca eravamo indietro perché impegnati a fare riprese e fotografare con l'allora quasi nuova macchina fotografica digitale di Luca, ma vedevamo benissimo i nostri due soci. Vicino a Gölem c'era Omar che iniziava a preoccuparsi per gli strani comportamenti del suo fedele socio. Tuttavia si meravigliò quando Gölem lo chiamò con tono molto scherzoso: “Omar guarda cosa ho trovato”. “Che cosa si potrà mai trovare sugli alti pascoli svizzeri sotto ad una roccia?” Pensò Omar. Una rivista fu la risposta. Era una semplice rivista per adulti scritta rigorosamente in tedesco (lingua sconosciuta a noi Sass).
Mentre loro due iniziarono a sfogliarla e a fare apprezzamenti sulle belle ragazze che posavano, arrivammo anche io e Luca con passo non troppo veloce. Perbacco! Fu la nostra esclamazione.
Dopo un brevissimo consulto decidemmo di non continuare a sporcare in montagna. E' il nostro spirito naturalistico. Così affidarono a me il materiale da smaltire. Per evitare di perdere altro tempo pregai Luca di mettermi la rivista nella tasca frontale dello zaino.
Riprendemmo a camminare e intanto fantasticavamo su chi potesse aver fatto uso di quelli che a Gölem erano sembrati dei semplici fogli colorati.
Un discorso tira l'altro e pian pianino, mentre perdevano quota e iniziavamo ad addentrarci nel paese incontravamo qualche villeggiante che dopo il nostro passaggio iniziava a ridere. “Vai a capirli gli stranieri” dissi io senza farmi notare da altri. Intanto Gölem e Luca avevano aumentato il passo e io ero rimasto dietro con Omar. Il traffico pedonale turistico del sentiero (ormai divenuto strada) era aumentato e tutte le persone dopo il nostro superamento iniziavano a ridere. Che cosa avevamo noi di tanto comico?
La risposta arrivò quando alle porte del paese, Luca, Omar e Gölem mi sollecitarono quasi con le forze a togliere lo zaino per fare una fotografia. A quel punto fu tutto chiaro, è come il bambino che si perde in un labirinto e all'improvviso vede l'uscita. Tutto tornava. Sotto le cinghie dello zaino, trionfante e incurante della pubblica figuraccia, faceva bella vista di sé il giornaletto crucco e vigliacco.
Solo ora ripensandoci riesco a sorridere.

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Testaman
di Gölem

Vi siete mai chiesti il motivo per il quale in tutte le nostre uscite, alcune anche particolarmente impegnative per le nostre pessime competenze alpinistiche, siamo sempre ritornati a casa illesi senza neppure un graffio?
A volte ci siamo anche trovati un po' nei pasticci, e abbiamo temuto per la nostra incolumità. Sapete, i monti sono belli ma spesso anche ostili. Ci sono rocce strapiombanti, massi in bilico, pendii traditori, valanghe sull'orlo del baratro, torrenti impetuosi, ma soprattutto ghiaccio, tanto ghiaccio.
Pur andando per valle oscura noi non temiamo alcun male, perché sempre Lui ci è vicino, e vigila sui nostri passi.
Le sue apparizioni si contano sulle dita di una mano, ma ognuna di esse è un evento che ha del miracoloso, e sul terreno dove mosse i suoi passi pure in inverno crescono i fiori.
La prima, anni fa ormai, testimoni sbigottiti i Sass Balòss.
Un enorme pilastro di ghiaccio (almeno di 5 centimetri ) sbarrava la strada dei suddetti, ormai allo stremo delle forze.
Lui, sicuro e impetuoso è giunto e con una testata sulla possente colata l' ha ridotta in frantumi.
Poi, incurante dei ringraziamenti e delle suppliche dei giovani, ha abbandonato il posto, forse per portare i suoi poteri al servizio di altri poveri disgraziati.
Poi di nuovo, un inverno, al margine del sentiero v'era un ruscello semicoperto dalla neve, e, pericolo estremo, una spessa crosta di ghiaccio granitico ricopriva le acque che scorrevano al di sotto.
Il momento era critico, bastava una scivolata fuori dalla strada, con conseguente caduta nel torrente, e la crosta di ghiaccio avrebbe potuto rompersi facendo bagnare i piedi del malcapitato, o, peggio, fargli picchiare la testa o le ginocchia.
Ancora dal nulla si è materializzato Lui, due falcate possenti ed era già inginocchiato sull'orlo dello strato di ghiaccio, un colpo di reni e la coltre era rotta.
Eravamo ancora salvi.
La più recente delle sue manifestazioni in terra elvetica, di ritorno da una escursione nella neve.
Con orrore notammo di fianco alla mulattiera un blocco di neve alto almeno un metro, appoggiato sul pendio a monte della strada, poteva staccarsi e precipitare nel lago sottostante, facendolo tracimare e cancellando in pochi secondi la ridente località di Zermatt.
Nessuno di noi aveva il coraggio anche solo di guardare quella nevosa mina vagante, in bilico come una spada di Damocle sulla testa di tanti cittadini indifesi.
Un fruscio alle nostre spalle e Lui era arrivato, lo sapevamo tutti.
Il suo passamontagna, spadone di tante battaglie, stava di nuovo per fare il suo dovere.
Una rincorsa solo accennata, e il mucchio di neve era frantumato, drago inerme e vinto di un tempo che non fa più paura.
“Non fuggire, dicci almeno il tuo nome…” è tutto quello che riuscimmo a dire.
“Testaman è il mio nome, e questi sono i grandi poteri di cui dispongo, se volete vi apro pure noci e noccioline a testate”
E poi via, verso il vento, non lo abbiamo più rivisto.

N.B.
Questa testimonianza l' ho raccolta dalle parole dei miei soci presenti assieme a me alle apparizioni, perché in seguito ad ogni comparsa di Testaman, venivo rinvenuto confuso ed in stato di choc. Sono una persona molto emotiva!

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Attese e ritorni
di Omar

Lo sapevo che saresti tornato.
Torni sempre… tu.
Stavo giusto pensando che, dall'ultima volta, era passato già troppo tempo, e non è da te starmi così lontano.
Ma cosa ci fai ancora qui? Dopo tutti questi anni.
Ti stavo aspettando però…Ho riconosciuto i tuoi passi mentre ti avvicinavi lentamente e in silenzio a me. Mentre sfioravi i miei fianchi, mentre mi guardavi incuriosito anche questa volta, così come tante altre.
Ci siamo incontrati mille volte ormai, eppure ogni volta è proprio come la prima.
Ti ho visto mentre guardavi i punti miei più nascosti, gli angoli più intimi e poi mi sfioravi dolcemente.
Non ricordo più quante volte hai dormito fra le mie braccia, non conto più le volte che hai voluto accarezzarmi piano, quasi con timore.
Dici sempre che ti manco eppure io sono sempre qui, non mi muovo mai. E mai potrei andarmene da te…
O forse sì…
Mi hai visto sotto tutti i miei aspetti, fredda come la neve, completamente nuda a volte, colorata e profumata, calda ed assetata. E ti sono sempre piaciuta, come a pochi altri…forse come a nessuno.
Eppure non è sempre stato così: abbiamo anche litigato, per colpa tua ovviamente, perché io non posso avere colpe, io sono fatta così, mi conosci bene…
E quelle volte mi hai insultato, quasi maledetto; mi hai detto che non saresti più tornato.
Avrei potuto cacciarti per sempre da me o tenerti talmente stretto da non farti tornare a casa mai più.
Ma sono sempre stata buona con te e lo sarò ancora.
Voglio che tu torni da me, voglio averti sopra di me, leggero come quelle foglie che in autunno mi ricoprono. Voglio sentire i tuoi silenzi mentre mi guardi da lontano. Voglio che mi tocchi, che mi annusi, voglio ascoltare ancora il tuo respiro affannoso su di me. Voglio sentirti tremare dal freddo e sudare dal caldo, e tacere…tacere di fronte ad un mio tramonto. E avere paura immerso nelle mie nebbie, vederti sognare sotto le mie fronde.
Ti vedo bene adesso, ti vedo salire verso me, arrancare sui miei sentieri…
Lo sapevo che saresti tornato.

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Voolaareee... oh oh
di Omar

Cosa volete?
In fondo anche Icaro è caduto. Malamente tra l'altro.
Tutti cadono, almeno una volta.
Noi Sass no.
Noi si vola. Malamente a volte, ma sempre con dignità e stile.
Chiedetelo al sottoscritto, caduto…scusate, volato da una falesia di 6 metri e fermatosi a 20 cm dal suolo, così, all'improvviso, senza accennare al dramma disperato che si stava consumando. Senza nemmeno avvisare il compagno che faceva sicura ai piedi della paretina. Compagno, tra l'altro, palesemente distratto dalle coscette di qualche benedetta figliola appesa chissà dove… Sarebbe stato troppo banale e poco elegante gridare qualcosa come cadooo! ehm… scusate… volooo! Tutti si sarebbero accorti… no, no, ci vuole dignità. Una spolveratina ai vestiti e su di nuovo… che stile, che tecnica, che sprezzo del pericolo… che paura!
Oppure domandate all'altro che, perse le forze con la sinistra, si teneva solo con i piedi e la destra. Persi gli appoggi per i piedi, si teneva solo con la destra. Perso l'appiglio con la destra, si teneva solo con la…testa! “Mi tengo con la testa! La testa!… Ce la faccio!… Ahhh!!!” Giù! Ma dopo ogni estremo tentativo. Fino alla fine si è eroicamente ancorato con la testa… e che testa. Poi è caduto… scusate, volato… tra gli applausi. Da quel giorno ci si ricorda sempre che per arrampicare serve la testa…
E cosa dire di quello che, sul pendio ghiacciato, decide per qualche recondito e sadomasochistico motivo, di lasciarsi cadere… scusate volare verso valle? Al grido di “Bloccatemiiii bastardiiii!!!!” lo vediamo scivolare a velocità stratosferica verso le basse quote, legato a noi da una sottile corda da 9mm bagnatissima e scivolosissima. Immaginatevi lo shock nelle zone sue più intime quando la corda è entrata in tensione e lo strappo si è ripercosso sull'imbrago… Che stile! Che velocità! Che mal di palle!!
Poi c'è quello che non cade… scusate, non vola mai. Già perché lui è troppo bravo per volare, troppo abile nell'arrampicare, nel procedere sul ghiaccio più ripido e duro, sul sentiero più infido e sconnesso, troppo sicuro di sé per perdere l'equilibrio sulle tracce più esili. Fa niente se poi il super eroe inciampa miseramente su una innocente e timida roccetta affiorante da mezzo metro di neve, si proietta in avanti e con elegante movimento di un piede ramponatissimo va a lacerare in maniera irreparabile i suoi nuovissimi pantaloni invernali. Nulla di grave direte voi, cose che succedono… Apriti cielo! Quel giorno c'era molta nebbia e i suoni erano ovattati, ma d'improvviso una serie di imprecazioni contro tutto e tutti si levava dell'ugola dorata dell'eroe. Venivano così chiamati in causa, nell'ordine: Santi del calendario (nessuno escluso), Angeli del cielo, Beati del paradiso, Venerabili in via di canonizzazione, Papi rispettabilissimi, Madonne, Re Magi, pastori, pecorelle smarrite, lucine di Natale e tutto un corollario mai udito da orecchio umano… Che stile, che voce, che acuti… Piccolo particolare, per qualcuno ininfluente, il prezzo dei pantaloni: 275 euro netto cassa!
Non sarebbe finita qui, ma è meglio lasciare perdere molti altri tentativi di imitare Icaro, che in fondo è pure lui caduto.
Ma sono sicuro che da qualche parte, in qualche valle sperduta o su qualche monte sentirete: che stile! che coraggio! che volo!… che figure di m…

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La morte può attendere
di Will
racconto dedicato ai miei più veri amici: Omar, Guglielmo e Luca

Era il giorno dopo Natale. Tutte le persone approfittano di questa giornata per concedersi ancora un po' di svacco. Quasi tutti a pranzo mangiano i succosi avanzi di quello che era stato il giorno precendente un pranzo di lusso degno del ristorante Vittorio di Bergamo. Invece noi Sassi cosa facciamo il 26 dicembre? Ci incamminiamo verso il bivacco Occhi in Val Grande. Molti amici mi hanno definito un pazzo quando ho accennato loro il progetto. Ma forse mi avevano assegnato quel titolo perché vedevano in quello che facevo un qualcosa che li affascinava, ma che non avevano il coraggio di esprimere.
Noi Sass in compagnia di Marcello, un amico di Gölem, nel pomeriggio di Venerdì 26 dicembre 2003 ci siamo incamminati verso il bivacco Occhi dove avremmo trascorso la nottata. Trovammo nel bivacco anche altri due alpinisti e con loro tentammo di reperire un po' di legna per riscaldare il soggiorno. Andammo a dormire piuttosto presto, dopo aver cenato con una pasta al pesto. L'indomani la sveglia di Luca suonò alle 5 e 40, ma l'unica persona che fu in grado di scendere velocemente dal letto fu Marcello.
Nonostante la sveglia mattutina, tra la preparazione della colazione e la nostra non iniziammo a camminare prima delle 7 e 30. Destinazione il passo di Pietra Rossa. Il sentiero era tutto coperto dalla neve e il nostro orientamento era basato su una cartina, sull'altimetro di Omar e sui nostri occhi. Dopo aver camminato per più di un'ora individuammo una ripida salita. Identificammo in quel canalone ricoperto di neve la via corretta per raggiungere il passo ( 3000 metri circa). Dopo aver cominciato la salita, ci aveva raggiunto uno dei due alpinisti che aveva bivaccato con noi la notte precedente e ci informò dell'errato sentiero, ma ci aveva rassicurato dicendoci che già altre persone avevano salito il canale.
Continuammo la salita senza grandi preoccupazioni. Marcello apriva la strada ed io in compagnia di Gölem la chiudevo. Invitai più volte il mio amico a proseguire e rassicurandolo che con la calma anch'io avrei raggiunto il passo. Ogni volta la risposta di Guglielmo era sempre la stessa: “Bertoldo se io ti aspetto fatico di meno, quindi non preoccuparti”.
E' un amico e un amico sa come non farti pesare i tuoi difetti.
A fatica dopo essere stato colpito più volte da crampi nelle gambe raggiunsi quello che a noi era parso il passo. In realtà l'apparenza mi aveva per l'ennesima volta ingannato. Infatti dopo qualche metro pianeggiante riprendeva la salita verso una vetta di cui ancora oggi non conosco il nome.
L'altimetro di Omar segnava 2970 metri di altitudine e il mio cervello era in grado di stabilire che non avevo le forze per andare oltre.
Comunicai a Gölem la mia decisione di fermarmi a riposare. Lui acconsentì e proseguì la sua salita.
I miei occhi furono in grado di identificare un grande sasso che avrebbe dovuto proteggermi dal forte vento. Iniziai a fatica a camminare verso quell'obiettivo. Non so bene cosa successe in quel momento, ma le mie forze cedettero improvvisamente e caddi (fortunatamente) verso il pianoro. Non so dire né quanto tempo stetti sdraiato su quella neve gelida, né quali fossero le immagini che passarono davanti a me.
Quando mi ripresi trovai le forze per togliere dallo zaino l'ultimo bicchiere di te caldo che mi era rimasto e la giacca a vento.
Mi diedi da fare e riuscii a rialzarmi. Avevo nel frattempo localizzato il grande masso che avrebbe dovuto proteggermi dal vento. Non feci più di tre passi che il mio corpo sprofondò nella neve fino all'altezza del bacino. Ero nuovamente bloccato e i crampi iniziarono a mettermi nuovamente fuori uso. Carico di rabbia per quello che stava succedendo, riuscii a trovare la forza per muovermi e per uscire da quel buco. Ma solo dopo 3 tentativi e un nuovo buco nelle ghette riuscii ad alzarmi.
Rinunciai (!) a raggiungere il masso e mi sedetti con lo sguardo verso l'orizzonte. Le mie gambe erano rannicchiate modello sepoltura fenicia e le braccia stavano accovacciate sopra le ginocchia. Persi nuovamente la cognizione del tempo e iniziai a percepire freddo in tutte le parti del corpo. Nelle mie gambe c'erano ancora crampi fortissimi. I miei compagni notarono che la mia posizione era indifferente da un po' di tempo e iniziarono a chiamarmi e a provocarmi. Ma nonostante io li sentissi non ero in grado di voltarmi. O meglio il mio cervello non era in grado di muovere i miei muscoli. Riuscivo a malapena a muovere la lingua e risposi più volte a tono basso alle provocazioni di Luca, Omar e Guglielmo.
Si preoccuparono al mio silenzio e arrivarono in fretta e furia da me. Mi trovarono incapace di muovermi, di prendere sagge decisioni e in uno stato di totale abbandono e di desiderio di vita. “Avviatevi voi, io vi raggiungo tra pochi minuti” era la frase più idiota che ero riuscito a pronunciare nel giro di pochi minuti.
Luca mi incoraggiò a suo modo ad alzarmi e a muovermi. Omar iniziò a fare massaggi alle mie gambe colpite dai crampi. Quello che stava accadendo aveva lasciato di stucco Marcello. Che alla sua prima uscita con noi non avrebbe mai immaginato di assistere ad una scena del genere.
Riuscii finalmente a riacquistare l'uso delle gambe, mentre quello delle mani rimaneva solo un desiderio. Inutile fu il tentativo di Omar di mettermi i sovra-guanti. A questo punto rimaneva solo da affrontare il canalone di discesa.
Nel film “le ali della libertà” il protagonista ad un certo punto dice all'amico: “In un carcere o fai di tutto per vivere o fai di tutto per morire”. Io a mio modo mi trovavo nella stessa situazione. O lottavo per la vita o mi lasciavo morire. I miei più fedeli amici mi avevano aiutato a lottare. A questo punto sarebbe toccato a me vincere la guerra. Non so come trovai la forza fisica per affrontare quel canalone in discesa con alcuni tratti con pendenza del 45° e di come arrivai a fondovalle senza precipitare. Ma ricordo con gioia e limpidezza l'aiuto che ho ricevuto. Ricordo con tristezza di aver perso la voglia di combattere. Al termine del canalone la mano sinistra era ancora fuori uso, ma la destra iniziava a rispondere bene. Camminai con le lacrime agli occhi fino al bivacco dove riacquistai perfettamente l'uso di tutte le parti del corpo e lo dimostrò la discesa fino alla macchina. Durante la discesa i miei compagni capirono che mi ero effettivamente ripreso e questo sicuramente li tranquillizzò.
Tornai a casa e non dissi nulla ai miei genitori per evitare inutili discussioni sulle mie uscite in montagna, ma raccontai a tutti i miei conoscenti di come Omar, Luca e Guglielmo mi avevano aiutato.
Ho continuato ad andare in montagna a camminare dopo quell'evento per essere sicuro di essere vivo.

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Il canalone
di Omar

Alzo la testa e vedo il Marcello davanti a me o meglio 10 metri sopra di me.
La abbasso e guardando tra le gambe stanche, vedo il Luca 30 metri sotto. Poi due puntini, lontani, che salgono, ancora zigzagando, perché la pendenza non è ancora eccessiva per loro, ma lo diventerà fra poco.
Quanto manca per uscire da sto' canale nevoso? Non riesco a capirlo, sembra che ci siano ancora una cinquantina di metri e poi basta, poi pianura, poi relax. Sto pensando già a sdraiarmi nella neve fredda per riposare un po' quando rialzo per la millesima volta la testa e mancano ancora 50 metri…ma non è possibile…sembrava finito…Tra porconi indicibili e sbuffi da ippopotamo grasso riesco a sbucare su quella che è la fine di questo lunghissimo canalone.
Sorpresa: c'è ancora da salire! Non in maniera così ripida ma si sale ancora. Un attimo di esitazione, guardo il Marcello, mio odierno eroe, e riprendo a salire verso la vetta che non raggiungeremo mai e che beffarda ci sorride 150 metri più su. Di questi 150 metri ne facciamo poco più di 100. Poi si scende. Troppo pericoloso l'ultimo tratto di cresta rocciosa coperta di cornici nevose e ghiaccio.
Intanto il Luca e il Losio, a loro volta, sono spuntati dal canalone, facce stanche e soddisfatte e salgono verso l'inafferrabile vetta. Li vedo arrancare nella neve alta fin oltre il ginocchio.
Ma manca qualcuno. Dove è l'ultimo puntino che vedevo lontano, circa un ora prima? Dove è finito l'ultimo dei pazzi che anziché riempirsi la panza come ogni cristiano che si rispetti il giorno dopo Natale, decide di farsi 3 ore nella neve e per di più al buio, raggiunge uno sperduto e gelido bivacco e il giorno dopo, contro ogni logica non sadomasochistica, si inerpica per uno scivolo nevoso quasi verticale per vedere cosa c'è oltre?
Quali reconditi e misteriosi motivi portano un tranquillo e pacioso ragazzo a sfidare freddo, vento, crampi alle gambe, geloni alle mani, dolori di stomaco, tra l'altro fastidiosi per i vicini, insonnia, levatacce ad orari ai quali i comuni mortali sono ancora avvolti dalle nebbie di Morfeo?
Si vince forse qualcosa di prezioso, si diviene forse eroi per una bella e desiderata ragazza che aspetta nostre buone nuove? Si ottengono sconti ai supermercati o lasciapassare per code chilometriche da sfruttare l'estate prossima?
Macché, nulla di tutto questo…le uniche cose che il nostro giovanotto si porterà a casa, saranno un terribile mal di gambe, un sano raffreddore, qualche incubo notturno, un appetito insoddisfatto con contorno di emicranie da super-sforzo…
Eppure quel giovane sale, e continua a salire finché lo regge il coraggio, la determinazione, la voglia di vedere cosa c'è oltre, la paura di non farcela. Sale perché è l'unica possibilità che gli resta.
Sale con i polpacci che sembrano di cemento e le mani che stringono forte la piccozza, novella spada contro chissà quali nemici, sale perché sa che può farcela ancora una volta, sale perché in fondo è quello che vuole con tutte le sue forze,…sale perché altrimenti lo prendiamo per il culo per una settimana…!
Bravo! Penso quando lo vedo sorgere dal pendio. Adesso puoi riposarti un attimo…Ho detto un attimo! No, non così…esagerato…non serve rotolarsi nella neve tipo tartaruga ribaltata che non riesce più a capovolgersi. Va bè, per stavolta te lo concediamo…Rotolati nella tua neve fredda e pensa che è tutto finito, tutto passato, anche questa volta. Pensa al rifugio che ti aspetta, pensa al thè caldo che ti berrai fra poco, pensa alla discesa…
Noo! La discesa!! Hai guardato la pendenza del canalone? Ti ricordi che è più difficile scendere che salire? E se scivoli? Minchia! Pensa positivo, pensa al thè caldo…cavoli non c'era più legna al bivacco, quindi niente thè, ma vaff…
E allora ti vedo sederti triste nella neve, voltare la schiena a tutto e tutti.
Ti chiamiamo 10, 100 volte ma niente da fare, non rispondi. Nemmeno un cenno. Lo sconforto ti ha preso e quasi dormi nel gelo.
Quattro porconi, due spinte e ti tiriamo in piedi. Qualcuno ti fa un massaggio alle gambe intorpidite, ma non basta, allora qualcuno ti fa un massaggino in zone proibite… e ti ribelli, quindi è tutto a posto…
Ormai sei pronto… giù. Con la calma, a gambero, piccozza stretta nella mano gelata e giù.
Bravo ragazzo, anche questa volta barcolli…ma non molli…

 

Grazie Trezzo!
di Will

Non c'è nulla come Tikal (Guatemala). Imponenti piramidi s'innalzano al di sopra della verde volta della giungla per catturare il sole; scimmie urlatrici si dondolano rumorose sugli alberi antichi mentre pappagalli dai vivaci colori saltano di ramo in ramo emettendo rauche grida. Quando il canoro gorgheggio di qualche misterioso uccello della giungla non riempie l'aria, il rumore di fondo è dato dal gracidio delle raganelle. Certamente l'aspetto più straordinario di Tikal è costituito dai suoi templi scoscesi alti più di 44 metri , ma Tikal è diverso d Chichén Itzà, da Uxmal, da Copàn e dalla maggior parte dei grandi siti Maya in quanto si trova nel cuore della giungla.
Tikal ora è invasa solo da turisti. Se quelle piramidi potessero parlare ci racconterebbero tante storie di vita quotidiana dei nostri predecessori… io invece posso solo raccontarvi di come Luca è sopravvissuto alle terribili insidie della giungla.
Luca era solito indossare sandali da 20 euro per visitare i siti archeologici, io invece un po' più prevenuto indossavo quasi sempre scarponcini da montagna. Il Messico e il Guatemala sono ricchi di piramidi Maya e spesso ci capitava di salire per ammirare il panorama. A Tikal però le piramidi sono inghiottite dagli alberi e spesse volte i loro gradini rivestiti da muschi.
Con lo spirito da Sass Balòss spesso salivamo anche su piramidi apparentemente insignificanti. Ma nel primo pomeriggio di martedì 3 febbraio 2004 mentre Luca stava scendendo da una piramide, i muschi fecero barcollare l'eroico alpinista che non poté fare altro che scivolare lungo i gradini. Lui, un uomo da sesto grado che stava precipitando da una piramide che ad esagerare sarà stata di II° grado. Non potevo credere ai miei occhi per quello che stava succedendo. A fianco a me giaceva un altro turista italiano e una guida locale. Anche loro ammirarono la scivolata con la bocca spalancata. Stavamo tutti pensando al peggio, anche se l'altezza del mio amico non superava i 7 metri dal terreno.
Luca stupì tutti. In quei pochi secondi di scivolata fu in grado di identificare una piccola fessura nei gradini della piramide e in meno che non si dica vi introdusse una o forse due dita. Allenato dalle insidie della falesia di Trezzo d'Adda (Milano), il giovane spostò tutta la sua forza in quelle dita che sembravano poter reggere altre tre persone. Nessuno applaudi quando in ragazzo toccò terra con i piedi, salvando così il suo delicato fondoschiena, ma la guida raccontò al giovane di come altre persone erano morte per una caduta simile.
Luca assaporò la sconfitta della piramide, mi chiese il silenzio stampa dietro minaccia, ma ancora oggi non intendo rispettarlo. Un giorno gli passerà. Ne sono sicuro.

 

Meglio tardi che mai...
di Omar

Non bisognerebbe mai togliere la gabbietta troppo presto.
Le conseguenze sono spesso irreparabili.
E così successe anche quella volta.
Aspettare è sempre un po' fastidioso e l'ansia a volte porta a pessimi risultati.
Fatto sta che qualche secondo prima del dovuto, partirono i primi tappi, così…senza che nessuno potesse opporsi alla dirompente forza della pressione. A nulla valsero sforzi immani e ingiurie contro il vigoroso sughero esplosivo.
Se chiedessimo ad un enologo o ad un fisico, ci spiegherebbe il misfatto parlando di variazioni di temperatura e conseguente liberazione di anidride carbonica, di complicate curve di espansione dei gas e leggi della termodinamica. A me piace pensare che sia solo una vendetta delle bottiglie abbandonate per mesi in una buia cantina e poi coccolate per pochi istanti prima di abusare del loro contenuto…
Solo i saggi tolsero carta e gabbietta nei tempi adatti, ma anche questi non furono puntuali e festeggiarono con qualche secondo di ritardo.
Tralasciamo poi un piccolissimo particolare: nessuno aveva, comunque, un orologio sincronizzato con il resto del mondo, visto che guardando dalla finestra, mezza valle era già avvolta dai fuochi d'artificio mentre noi si stava ancora litigando sui secondi mancanti alla mezzanotte…
Fuori, intanto, la notte era serena come poche altre e il metro di neve fresco appena caduto dava un aspetto fantastico e ovattato alla montagna che ci circondava.
Dentro, il rifugio era caldo e rumoroso, le canzoni stonatissime e scoordinate rimbalzavano contro le pareti indifese e ormai stanche delle nostre grida, dei nostri brindisi, dei nostri auguri.
Ma non si stava solo festeggiando…
Qualcuno lavorava di nascosto.
Giochi di sguardi, di mezze frasi, di atteggiamenti distaccati. Tecniche sopraffine di corteggiamento che solo la futura preda poteva cogliere.
Tutti gli altri non poterono accorgersi della sottile tela tessuta tra tavoli e cameroni. Tela destinata a dolce cacciagione.
Distraetevi o cari amici, distraetevi e non pensate a loro…Bevete pure dai vostri allegri calici. Lasciate ad altri le prime timide effusioni. Non pensate a provvidenziali coperte e luci soffuse, a profumi di legno e tepori di guance vicine.
Pensiamo ai nostri panettoni, ridiamo alle nostre battute, chiudiamo un poco gli occhi sotto il penso delle nostre fatiche quotidiane, lasciamo a loro altri pensieri, altre parole…altre fatiche…
C'era poi chi, non avvezzo a queste situazioni, si trovò in grosse difficoltà, causate forse dall'eccessiva presenza femminile. Noi Sass, non abituati a tutto quel ben di Dio, rimanemmo un po' così, a guardarci fra noi, a domandarci cosa fare, come agire. Non tutti a dire il vero…
E come sempre, quando non si riesce a scegliere, si finisce per non concludere nulla. Eppure sarebbe bastato poco, un po' più di gentilezza, di saperci fare, di accontentarsi…forse meno alcol nelle vene avrebbe risolto tutto…
La serata passò veloce, tra risate, boccate d'aria fresca, fotografie scandalose, belle Babbe Natale, bicchieri sempre vuoti e palle di neve.
Venne anche l'ora di dormire…più o meno…
E di svegliarsi, di abbuffarsi alla colazione per recuperare energie spese nel migliore dei modi, di fare due passi nella neve fredda a alta.
Scendemmo a valle nel primo pomeriggio, ma in quel luogo qualcuno lasciò qualcosa, un rimorso, un bacio rubato, un bacio mancato, un risveglio in dolce compagnia.
Torneremo, forse, un giorno in un posto simile, ma non sarà più come quella volta, non ci sarà più quella neve, quelle coperte, quel bacio rubato, e quello mancato…
Mi spiace…davvero. Ma ci saranno altri bicchieri con cui brindare, altre ragazze vestite da Babbo Natale da abbracciare, altre motoslitte bloccate nella neve da spingere, altri viaggi da progettare, altri baci da ricevere e da dare.
Auguri a tutti…

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La Maledizione della croce spezzata
di Gölem

E' accaduto un fatto straordinario.
Uno di quelli che cambiano inesorabilmente il corso delle cose.
E successa una cosa il cui solo ricordo mi fa ancora accapponare la pelle.
C'era una croce sulla Corna de Caì, un simbolo consueto sulle nostre vette, un compagno di escursioni, a volte un comodo poggia schiena, altre ancora l'ultima sosta della via.
C'era una Croce scolpita nel marmo, probabilmente quello bianco di
Botticino, così splendente ed immacolato.
C'era una Croce che lì era stata posta, sicuramente con solenne benedizione, ai piedi di un altare anch'esso in marmo, incurante delle intemperie, eterno, sacro.
Un bel giorno la croce era lì tra le nevi di marzo dell'altipiano delle
Cariadeghe.
Il giorno dopo siamo arrivati noi, o meglio, è arrivato il Bertoldo.
Raggiunta la cima della simpatica montagnola, Bertoldo, ormai famoso per la sua pietà (!!!), non ha potuto non pensare ad un gesto di devozione.
Io mi sarei potuto aspettare un rutto, o un altro possibile e accidentale rumore molesto, sono cose che capitano.
Invece l'imponderabile stava per accadere sotto i nostri occhi, e noi impotenti non siamo riusciti a muovere neppure un dito per salvare con un colpo di reni il nostro destino a quel punto in bilico. Sembrava quasi volesse cogliere un fiore, mentre toccava la croce con le sue
piccole manine (!!!), sembrava un gesto riverente.
Per un po' la croce pareva che reggesse, poi invece era chiaro a tutti che la croce era rotta, estirpata, spezzata, abbattuta, sradicata, non esiste il termine adatto.
Lo sconforto è caduto su di noi, e la disperazione, ovattata dalla coltre di neve, ha schiantato in un istante le nostre speranze per il domani.
Lui, il Sacrilego, se ne è rimasto lì a bocca aperta, ma già in cuor suo
sapeva cosa aveva fatto dei nostri destini.
Lui, Sass imprudente e oramai dannato, con un gesto scriteriato ci aveva rovinati tutti.
La Croce Mozza è stata deposta sull'altare, a fissare il cielo percorso da rapidi nembi neri: anch'esso oramai non prometteva nulla di buono.
La discesa è stata un calvario, solo che invece di portare noi la Croce, era la Croce a portare noi.
Siamo stati condotti per sentieri inesistenti, tramortiti da rami caduti da chissà dove, sprofondati negli inferi fradici di neve.
Io ho addirittura visto qualcosa che mi sembrava la Madonna.
Se ne stava appollaiata sul ramo di un grosso castagno visibilmente
alterata, e cantando un vecchio motivetto degli alpini beveva qualcosa da una fiaschetta, come quella dei cani San Bernardo.
Io sto ancora relativamente bene, ma da un po' mi va tutto storto.
Non sto a darvi tutti i dettagli, ma si tratta di cose antipatiche e devastanti, non le auguro a nessuno. Omar non da più segni di sé da giorni ormai, e a dirla tutta non ho grandi speranze di salire ancora in futuro i monti con lui. Bertoldo credo abbia ormai perso del tutto la ragione, è ancora vivo, ma da amico preferirei forse che non fosse più tra noi.
Non lo avevo mai visto in quello stato, che definirei di limbo tra l'essere umano senziente ed il non-morto Stokeriano.
Credo che ora desideri il suicidio.
Ora non so per quanto la mia esistenza si protrarrà ancora, non importa.
I Sass stanno uniti fino alla fine.
Io ti perdono Bertoldo, tuttavia, vedi di andare a cagare!!!

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Ricordi felini
di Omar

Certo che siete molto strani voi esseri umani.
Me lo diceva sempre la mia povera mamma (pace alle sette anime sue) di non fidarmi mai di voi, specialmente dei vicentini. Cosa fossero poi questi vicentini, non l'ho mai capito... forse una razza particolarmente aggressiva e famelica del genere umano...
Ed io, da bravo cucciolo, ho sempre seguito questo consiglio.
Quasi sempre...
Almeno fino a circa due anni fa, quando, nel mio girovagare senza sosta né meta, mi ritrovai in un posto bellissimo immerso tra le montagne. Un posto senza strade. Qui non c'erano quelle strane cose metalliche che gli uomini usano per spostarsi e migrare tutti in massa chissà dove, uno dietro l'altro.
Quelle cose che più di una volta hanno aggredito e ucciso alcuni dei miei fratellini.
In quel posto mi trovai benissimo, pace, silenzio, molti amici con cui giocare e qualche amichetta con cui fare un po' le fusa, ma questi sono particolari che non vi possono interessare...
Qui incontravo spesso gli esseri umani ed ogni volta correvo a nascondermi, mi arrampicavo sugli alberi o mi appiattivo sul terreno in mezzo all'erba fresca e non respiravo per la paura.
Non che ne vedessi moltissimi, ma in alcuni periodi dell'anno, specialmente in quelli caldi, alcuni branchi di uomini transitavano verso i monti e poi tornavano qualche ora dopo, spesso urlanti e rumorosi, a volte anche con i loro cuccioli piangenti.
Nella stagione fredda, invece, ne passavano pochissimi, con grande piacere per le mie coronarie. E' chiaro che quando fa freddo, anche gli uomini vanno in letargo, proprio come le mie amiche marmotte. Non so dove si infilino a dormire, ma prima o poi lo scoprirò…
Pochissimi, ma qualcuno, raramente, lo notavo arrancare in mezzo a quella polvere fredda e bianca che cade dal cielo nella stagione brutta.
E così capitò anche quel giorno, quando, da lontano, riconobbi due esseri umani avvicinarsi lentamente risalendo la vallata.
Si vedeva che avevano già cambiato il pelo, avevano quello adatto al freddo e apparivano, così, più grossi di quello che in realtà sono nella stagione calda, quando sono coperti solo da una pelliccia corta e strana che lascia scoperte le zampe e a volte anche quasi tutto il corpo.
Mi dissi: “Basta! Sono grande ormai... è ora di guardare da vicino questi uomini dall'andatura ridicola, che si muovono su due sole zampe e, quindi, probabilmente imparentati con le galline, ma stranamente mancanti di ali.”
Mi nascosi dietro ad un masso come tanti e lì, aspettai che i due buffi esseri mi passassero accanto.
Il cuore mi batteva forte in gola, le orecchie erano dritte verso il rumore dei loro grossi e pesanti zoccoli, i baffi erano tesi a percepire vibrazioni nell'aria fredda del mattino.
Passarono accanto al masso senza neppure notarmi.
Rimasi quasi deluso da questo...
Mi ero immaginato un ben diverso comportamento.
Capii che erano dei pessimi predatori, anzi, mi sembravano molto affaticati e per nulla pericolosi. Annusai l'aria e percepii un certo odore strano, proprio mentre il primo dei due emetteva uno strano verso del tipo “Ho mollato...". Non so cosa potesse significare nel misterioso linguaggio umano una tale espressione, ma il risultato fù che l'altro umano si mise ad imprecare violentemente e fuggì al galoppo in avanti trattenendo il respiro... chissà quale forza deve avere un verso del genere...
Decisi, incoscientemente, di uscire allo scoperto, di mostrarmi a loro, di vedere come avrebbero reagito.
Con un balzo li raggiunsi e li superai, piazzandomi così davanti alla loro strada.
Si fermarono entrambi guardandomi con occhi stupiti. Quello dietro, che sembrava più alto, non che fosse proprio alto, mi mostrò i denti, ma non in atteggiamento di sfida, anzi sembrava divertito dalla mia presenza e cercò perfino di catturarmi... aveva però una pessima agilità e sfuggirgli fu facilissimo.
L'altro, più magro e con strani cerchi metallici attorno agli occhi, si fermò e si tolse una specie di guscio dal dorso, lo aprì e tolse del cibo (che siano simili anche ai cammelli...?) che inizio a sgranocchiare. Il profumo del cibo arrivò subito al mio naso e fui tentato di avvicinarmi, ma vatti a fidare di questi bipedi. Con gran voracità il primo dei due si avventò sul cibo del compagno e ne strappò un pezzo. Non devono essere animali molto sociali...
Ripartirono verso i monti ed io li seguii per una bel pezzo di strada. Mi erano simpatici e sentii che parlavano di un posto chiamato “rifugiobrasca” o “rivuciobrasca”. Conosco perfettamente quella zona, ci vado spesso e decisi di spiegare anche a loro la giusta via. Non so se capirono perfettamente quello che dissi loro, anche perché apparivano un po' sperduti e mi fecero tenerezza.
Mentre camminavamo affiancati, ascoltavo i loro versi e i loro canti. Probabilmente si trovavano nella stagione degli amori e stavano chiamando le loro femmine…con però scarsi risultati...
Decisi di lasciarli al loro destino... che se la cavassero da soli...
Si allontanarono continuando a voltarsi in cerca del mio aiuto, ma ormai dovevano arrangiarsi. Li vidi sparire dietro una enorme roccia e non li incontri mai più.
A volte, nei giorni freddi penso ancora a quei due esseri umani.
Mi piacerebbe incontrarli di nuovo, forse in qualche altra valle, magari gli farei conoscere i miei cuccioli e potrei dirgli che grazie a loro adesso non ho più paura degli uomini. Forse mi mancano anche un po'...
Firmato: Il Gatto della Val Codera

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L'importante è tornare a casa
di Omar

Ci sono giorni in cui bisognerebbe spegnere la sveglia e continuare a dormire.
Anche se la voglia di alzarsi e partire è tanta, tantissima.
Bisognerebbe resistere a qualunque tentazione. Dormire. Solo dormire. Il resto risulterebbe pericoloso…
Sono, queste, le famose giornate storte o sbagliate che dir si voglia.
Solitamente ci si accorge delle giornate storte dopo un paio di eventi…diciamo sfortunati che ti capitano in poco tempo. Può succedere di andare al lavoro e trovare traffico, arrivare in ritardo e, al momento di timbrare, venire sorpresi dal capo. A qualcun altro può accadere di perdere le chiavi della macchina e, contemporaneamente, vedere scaricarsi il cellulare per poter chiamare la moglie. Cose , tra virgolette, normali, che capitano un po' a tutti.
Io credo che le giornate storte siano causate da nostri piccoli e all'apparenza insignificanti errori. Talmente piccoli da ritenerli inesistenti, innocui, involontari e a volte voluti.
Anche io mi accorsi che quello non era il mio giorno fortunato. Me ne accorsi troppo tardi, quando ormai la sveglia era già suonata, ero già uscito di casa ed avevo già iniziato ad arrampicare, così come tante altre volte.
Avevo, purtroppo, fatto anch'io i miei simpatici errorini. Non lo sapevo, ma li avevo fatti.
Adesso che ci ripenso, tutto iniziò con la brillante idea di alleggerire il mio zaino: mettiamoci solo lo stretto indispensabile… pensai.
Il tempo mi sembrava ottimale per una scelta geniale: portare solo mezzo litro d'acqua. In un solo colpo risparmiavo alle mie spalle un bel chilo e mezzo… primo errore. Orgoglioso della mia scelta, prosegui nell'alleggerimento dello zaino. Via tutto l'equipaggiamento contro il freddo, via i cibi pesanti, via i suppellettili da emergenza (pile, telefonini, stringhe di ricambio, cremine varie…). Proprio mentre stavo per gongolarmi della mia astuzia, ecco arrivare il colpo di teatro che solo i geni incompresi possono avere: cambio di zaino. Decido di riciclare un vecchio zainetto da scuola, leggerissimo, coloratissimo, bellissimo, con un solo piccolo difetto: vecchissimo. E poi mi dava fiducia, così pieno di ricordi… e i ricordi non pesano un bel nulla…secondo errore.
Scriveva Foscolo che gli avversi numi sono sempre in agguato, un po' come una spada di Damocle sopra le nostre testoline. Quella mattina decisero di manifestarsi in un momento preciso, in quello peggiore per il sottoscritto. Non lungo un tranquillo sentiero o un facile tratto di roccette. Ma nel bel mezzo di un diedro unto e verticale. Ero attaccato alla roccia tipo cozza, con ogni mio arto teso al massimo per allungarmi ancora quel centimetro sufficiente a raggiungere l'appiglio sopra. Ero concentrato sulla roccia e sul movimento successivo. Cercavo di mantenere l'equilibrio faticosamente raggiunto spostando il peso delicatamente. Delicatamente. Concentrazione. Sicurezza. Respiro. Alzo il braccio sinistro, cambio la presa con la mano destra, alzo il piede sinistro…si strappa lo spallaccio dello zainetto…quello pieno di ricordi!!!
L'equilibrio va a farsi benedire. Tutto il lavoro fatto va con lui…Ingiurie irripetibili…
Cerco di recuperare affannosamente una condizione accettabile, ma lo zainetto rompe le palle. Lui e i suoi ricordi penzolano dalla mia spalla destra. Sotto di me ci sono circa 150 metri di rocce e non sarebbe un buon volo per lui e soprattutto per il mio portafoglio.
Con immani sforzi, e grazie al mio compagno di cordata che blocca la corda, riesco a legare lo spallaccio dello zainetto con un cordino e, con una manovra da far impallidire Mc Giver, salvo il salvabile.
Riprendo a salire con il fiatone, raggiungo il Bertoldo comodamente assicurato ad un chiodo proprio nel passaggio chiave del diedro. Per superarlo, mi invento degli appigli inesistenti sopra la sua ingombrante figura. Ormai il cuore è alle stelle, il respiro è da cavallo al galoppo e lo spasmo muscolare è leggermente frenetico. Cado come un salame, giù nel vuoto che mi richiama avidamente assieme al mio zainetto riparato e sempre più zeppo di ricordi. Grazie alla corda, che è piuttosto elastica, non avverto nessun colpo, se non fosse per il mio ginocchio che decide di sfidare la roccia e la prende a testate…vince ovviamente la roccia a mani basse. Risultato: ginocchio gonfio, dolore lancinante e roccia baldanzosamente intatta.
Tutte le mie maledizioni vengono sparse dal vento che sale dal lago di Lecco e riempiono l'aria attorno a noi.
Eroico, riprendo a salire, più con la rabbia che con altro.
Un paio di soste più in alto stavo tranquillamente curando le mie ferite, non solo fisiche ma anche mentali. Ero al sicuro, il compagno già assicurato, aspettavo solo il comando per partire. Nessuna voce provenne dall'alto, nessun avviso. Mi arrivò così, da una ventina di metri sopra la testa. Cadere sulla roccia sarebbe stato troppo traumatico, poverino, deve essergli sembrato migliore un atterraggio sul mio povero pollice sinistro. Fu così che quel simpatico sasso fece il suo incontro con la mia mano. Il Luca rise, ma capì subito che non fu proprio una cosa piacevole per me. Lo capì dalle gentili paroline che uscirono dalla mia bocca e dal colorito bluastro che assunse il ditone.
Cominciai ad avere sospetto che qualcuno remasse contro. Vi prego portatemi a casa fu il mio pensiero per qualche minuto. Ma non lo dissi…
Decidemmo, più tardi, di scendere, visto l'ora tarda e le difficoltà che incontravamo continuamente.
Preparammo le corde per la discesa e iniziammo la mesta ritirata.
Percepii solo il sibilo acuto e, immediatamente dopo, lo schianto violento circa 20 cm a sinistra della mia ignara spalla. Non vidi questo secondo sasso. Ma potei intuire la sua dimensione dal rumore spaventoso, dalla temperatura che raggiunse il mio sangue nelle vene e dal silenzio improvviso che mi circondò per pochi secondi mentre osservavo le facce spaventate dei miei compagni.
Andiamo a casa, pensai…e lo dissi…
Giunsi alla conclusione che contro certe sfortune non serva il coraggio e non basti nemmeno la speranza.
Giù, quindi, veloci e decisi.
Il resto della discesa fu funestato da piccolissimi problemini, ma ormai nulla poteva spaventarmi più. Accettavo passivamente tutto quello che mi succedeva. Misteriose piante urticanti mi ustionarono le braccia con conseguente prurito per giorni, piante spinose mi graffiarono senza rispetto ogni cm quadrato di pelle, Bertoldi pesantissimi mi schiacciarono piedi doloranti nelle scarpette strettissime.
E molto altro che non ricordo.
Venni deriso per buona parte del viaggio di rientro ed avevano ragione.
Io me ne rimasi zitto e buono evitando ogni tipo di conflitto; avrei potuto peggiorare le cose attirando sfortune sulla nostra povera auto.
Preferii pensare al giorno successivo…
Tanto, pensai, arriverò a casa… prima o poi.

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Non Sense
di Omar

Credo che il mio gatto stia dormendo ancora a quest'ora... beato lui.
Mi piacerebbe poterlo accarezzare adesso, sentire le sue fusa...
Sinistra, mi pare sia a sinistra.
La prossima volta vado a letto prima. Devo smetterla di andare a letto alle tre e poi essere mezzo rincoglionito la mattina... Oggi non è difficile, però sono mezzo stordito; e poi basta birra. Meglio una bibita...
Dove passa? Va beh... io lo seguo, poi vediamo...
No, la bibita è da fighetti. Facciamo così: solo una birra, non due. Adesso che fa caldo la birra è l'ideale...
Caldo un fico secco, guarda che pelle d'oca... sarà questo vento gelido che viene giù da non capisco dove...
Il concerto non era male, però 13 euro sono esagerati... manco fosse Bob Dylan. Poi dicono che la musica è dei poveri... almeno i Mercanti di Liquori erano gratis e cantavano anche bene...
Spettacolo questo bosco! Piano ragazzi... sono scoppiato!
Non ricordo a che ora arrivo a Londra... secondo me bisogna fare di corsa per prendere il volo per Dublino. Speriamo che la macchina sia bella, con la sfiga che ho non avrà nemmeno l'autoradio. L'importante è che non piova troppo, sennò immagino le lamentele di qualcuno per i capelli che si arricciano...
Finalmente un po' di discesa, così, bella, tranquilla, su questo terreno morbido. Sì però perdiamo quota e poi si deve risalire. Che palle!
Quel costone mi ricorda quella volta in Val Grande. Si somigliano molto queste due... cavoli quasi mi ammazzo! Devo guardare dove metto i piedi mica stare con il naso all'insù. Il Coppola me l'ha detto una volta che quasi si uccide perché era distratto. Mi ricordo anche quella volta del Losio che su un sentiero banale si è graffiato tutto, inciampando in un sasso...
A cosa stavo pensando...? Arrivo... arrivo, tranquilli che sono stanco ma non mollo... forse...
Stasera, quando torno, mi mangio un chilo di gelato, ho voglia di gelato... pistacchio e panna...
Però adesso mi fermo e bevo, no, lascia perdere. Se mi fermo non parto più!
Credo che degli amici si dovrebbero dire di più... se uno ha un problema, lo deve dire, tanto, se non ne parla mica lo risolve... soprattutto se il problema è con qualcuno. Io ne parlerei. Io ascolterei uno che ha un problema. Se è mio amico cerco di aiutarlo, magari non ci riesco, ma ci provo... Di sicuro non ci riesco...
Pistacchio e nocciola forse è meglio...
Mi piace ridere con loro, magari a volte ci incazziamo, però di solito si ride, si parla e ci si prende per il culo... sto bene...
Lo sapevo che tornava a risalire. Tra l'altro fuori dal bosco adesso si sbocca di caldo. Dove è finito il venticello di prima? Ecco, ci mancavano le mosche... no che cavolo sono? tafani... odio i tafani. Via da qui!
Al mare bisognerebbe andare d'estate, non a fare fatica. Almeno al mare ci sono le ragazze, qui, non se ne vede una. Nemmeno brutta...
Lunedì spero che non ci sia casino sul lavoro, adesso si è calmata un po'. Sono stanco di fare dieci ore al giorno. Voglio andare a casa presto anche io e magari prendere più soldi. Mi farei delle belle ferie l'anno prossimo.
Se faccio 13 compro tutta l'attrezzatura super leggera... basta sti' fardelli sulla schiena. Voglio lo sherpa che mi porta lo zaino!! Cazzo, lo pago!
Ecco là il rifugio. Manca una cifra di strada, sembra lì, ma non credo manchino meno di due ore. Guarda che faccia che hanno gli altri. Non sono l'unico scoppiato.
Si capisce che qualcuno è arrabbiato, non è come al solito.
Non ho mai pensato che ci siano periodi belli e periodi brutti... il bello e il brutto si mischiano, vanno e vengono, si scontrano. A volte sei allegro, altre c'è un problema. L'importante è accettare questo fatto. Ci annoieremmo se fosse sempre tutto bello. Anche fra amici è così...
Non ho mai capito le magliette che non ti fanno sudare e nemmeno gli zaini con il sistema cooling per la schiena. Secondo me se sudi... sudi e basta.
Esagerato questo cavo metallico, non serve a nulla, tranne a rovinare il sentiero. Però quando c'è il ghiaccio viene utile. Sì, col ghiaccio è pericoloso.
Quanto mancherà ancora? Non più di un'ora, spero. Sono almeno tre ore che camminiamo, la relazione diceva poco più di quattro ore per il rifugio e cinque per la vetta, ma non so se oggi vado fino in fondo... forse, però, se riposo al rifugio, mangio qualcosa e mi passa la crisi.
Cosa hanno detto? Si sale? Fino in cima? Ti pareva!
Bella compagnia... si sale. Ancora una volta...
E' meno faticoso di come pensassi.
C'è qualcuno triste, si vede lontano un chilometro. Ci vorrebbe il mio gatto terapeutico. Quando lo accarezzo mi passa il nervoso. La prossima volta lo porto... al guinzaglio. Minimo graffia tutti... altro che antistress.
Giù, adesso, di corsa. Comincia a fare fresco e quelle nuvole là in fondo fanno presto ad arrivare qua. Ecco, inizia a piovere. Tutto cinema: ha già smesso...
Bello anche il panorama…anche se non conosco nemmeno una cima. Meno male che c'è sempre qualcuno che le riconosce...
Sono sicuro che passerà anche questa... i malumori passano. Gli amici restano, se li sai tenere vicini.
Ho deciso: ...pistacchio e fiordilatte.

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Delirio
di Will

Dopo una notte insonne passata a contare i lenti secondi e a lottare con i miei fantasmi e le mie paure, giunte le prime luci dell'alba ho abbandonato la camera e mi sono diretto verso l'uscita del rifugio. Un placido silenzio regnava nel caldo ambiente. Il mio scontro con la scura stufa sfuggita ai miei occhi ha sicuramente destato preoccupazione su tutto il pianerottolo.
Sono sbucato dalla piccola porta del rifugio e con passo lento mi sono seduto sulle roccette vicine al tricolore italiano. Gli unici rumori percepibili dalle mie orecchie erano i leggeri cinguettii degli uccelli che insonni (come me) svolazzavano da un sasso all'altro. Il sole sorgeva lento all'orizzonte. La solitudine della montagna mi regalava momenti unici.
Amo la montagna e la sua solitudine. Odio la solitudine cittadina. Ogni giorno è una lotta contro le solitudini. In montagna stando in silenzio dialoghi con l'Onnipotente. In città il silenzio ti avvolge e fa comparire i tuoi fantasmi e le tue paure. È una guerra senza fine. A volte vinci qualche battaglia. La maggior parte perdi. È una guerra con infinite battaglie.
Mai una bandiera bianca, mai una tregua. Tutto è un tormento. Lottare contro qualcuno che non conosci, lottare contro qualcuno che non vedi.
Sono pazzo. Ormai ne ho la certezza. Posso solo cantare canzoni ad alta voce giusto per spaventare i fantasmi che ho intorno. Ma loro tornano subito e mi sconfiggono.

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La Rompiscatole
di Omar

La domanda mi arriva a bruciapelo mentre mi sto trangugiando la meritata birretta serale: “…ma si può sapere cosa diavolo è un tiro?” Mi guardo attorno un po' sorpreso e spaesato. Il viso dell'inquisitore è quello innocente e un po' scocciato di un'amica bionda alla mia sinistra.
Cerco conforto nei dolcissimi occhi verdi della ragazza alla mia destra, ma non una parola viene in mio aiuto… nessuno che accenna a cambiare discorso.
Improvvisamente sembra che tutto il locale sia interessato alla risposta. “Ma fatevi i fatti vostri” penso guardandomi attorno. Nonostante l'attimo di pausa, la curiosa insiste. Non posso sottrarmi al dovere, devo spiegare il tutto.
Nessuno si immagini gesti al limite delle legalità con qualche sostanza stupefacente. Il tiro è, molto più semplicemente, in gergo alpinistico, la distanza percorsa da una cordata tra una sosta e l'altra durante un'arrampicata.
Tutto qui, penso io, nulla di più logico, semplice e chiaro.
Illuso.
“Una cordata cosa è? Scusa, ma non me ne intendo…” L'amica bionda comincia a starmi meno simpatica. Ma qui dovrei cavarmela meglio.
Spiego con calma che si tratta di 2 o 3 persone, legate alla stessa corda, oppure a due mezze corde, tramite un imbrago e che arrampicano lungo la stessa via.
Aiuto!
“Come la stessa via? E perché usate le corde tagliate a metà?”
OK, stiamo calmi. La colpa è mia. Lei è innocente, non conosce, quindi non posso fargliene una colpa.
Mi volto a destra e vedo che la ragazza con gli occhi verdi inizia a capire che qualcosa non funziona. Lei mi conosce e sa che potrei reagire in modo poco cortese. Mi giro nuovamente a sinistra per concludere tranquillamente l'interrogatorio di secondo grado.
“La via è l'itinerario scelto per salire su una parete rocciosa. Per arrivare in vetta possono esserci più itinerari, di diverso grado e lunghezza. Uno sceglie quello che vuole e lo percorre salendone i vari tiri…” La frase resta troncata a metà. “In che senso di diverso grado?”
Beh, qui siamo su terreno facile…chiarisco che il grado identifica la difficoltà dell'arrampicata.
“Chi stabilisce la difficoltà?”.
Semplice.
“Il primo che l'ha salita”.
“Ma non è un po' troppo soggettivo il giudizio? Se uno è bravo tenderà a sottovalutarla, viceversa se uno è un brocco…”
Brava, nulla da ridire.
Però comincio ad incazzarmi... Anche perché non riesco a ribattere alla giusta osservazione.
Mi arrampico sugli specchi spiegando che chi apre nuove vie è normalmente esperto e quindi l'esperienza porta ad una valutazione abbastanza esatta della difficoltà. Anche se spesso si incontrano errori di valutazione madornali, specie nelle vie classiche.
“ Cosa è una via classica?”
Ma vaffan...!
Taglio corto “Quelle vecchie aperte molti anni fa, quando si sfruttava la conformazione della parete per salirci sopra. Quindi lungo camini, diedri, fessure…” Non ho ancora finito la frase che già mi pento di quello che ho detto.
Infatti...
“Camini? Diedri? Fessure? Spiegati meglio”
Ohh, ma che cavolo vuole questa. Io stavo bevendo la mia birra, bello tranquillo e soddisfatto. Potrei mandarla a quel paese, ma il problema vero è che sono tutti curiosi e pare che prendano appunti tanto sono attenti e divertiti.
Sulle fessure ci siamo capiti al volo. Sui camini abbiamo avuto un po' di incomprensioni, ma nulla di grave. Sui diedri non c'è stato niente da fare.
Dopo circa 30 minuti di apnea alpinistica, sembra che il discorso si vada affievolendo, con mia enorme gioia. Forse anche perché un nugolo di belle figliole entrato nel locale ha distratto un po' tutti, e messo a tacere la parte maschile del tavolo.
Inossidabile la bionda torna però all'attacco.
“Quindi per salire una montagna si sceglie un itinerario, ci si lega in cordata, si arrampica con delle corde tagliate a metà e ci si ferma ogni tanto per fare una sosta.”
“Come corde tagliate a metà?”
“L'hai detto tu...”
“Ma va... le mezze corde sono due corde più sottili che si usano in coppia perché più leggere della corda intera e lasciano fare delle discese in doppia più lunghe”
“Ma se sono due peseranno di più di una... e poi cosa diavolo è la discesa doppia?”
Datemi un coltello che la uccido.
“Discesa in corda doppia non discese doppie!”
Ormai è guerra.
Con sguardi imploranti cerco aiuto. Ma nessuno, proprio nessuno mi capisce?
Mi rifiuto di spiegare anche questo e me la cavo con una descrizione sommaria della calata.
Con sorpresa incredibile sembra tutto chiaro fin da subito. Mi insospettisco e fiuto il tranello.
Adesso sono io che chiedo “cosa centra che ogni tanto si fa una sosta?”
Mi guarda con disprezzo e quasi mi aggredisce “Sei stato tu a parlare di soste lungo la salita. Cosa fate, vi fermate a mangiare, a fumare, a fare pipì?”
Secondo me mi prende per i fondelli…e la cosa mi irrita leggermente. Se non fosse per la carezza che sento sulla gamba destra le salterei al collo tipo puma bavoso e affamato.
Mi rilasso e illustro ad opera d'arte cosa sia e come si prepari una sosta. E già che ci sono chiarisco meglio anche la calata in doppia. Mi destreggio tra anelli cementati, cordini, fettucce, discensori di vario tipo, reversi, nodi Prusik, kevlar, regolazioni della velocità di discesa, comandi della cordata, pericolo di cadute sassi, differenze tra i diametri delle corde, usura dei materiali, lunghezza delle lounge, e quant'altro di complicato mi viene in mente.
La ragazza mi guarda con gli occhi sbarrati, non sa nemmeno più da che parte iniziare a fare domande, cerca aiuto, beve la sua bibita e alla fine, sconfitta, simula una telefonata urgentissima che deve fare immediatamente.
Torno a sorseggiare la mia birra, trionfante e soddisfatto come dopo un'arrampicata in dolomiti.
Nemmeno il tempo di fare il secondo sorso, che il tipo davanti a me mi guarda e... ”Posso farti una domanda?”
“Certo...”
“Ma cosa è un reverso?”
Mi alzo, guardo la ragazza dagli occhi verdi, anche lei si alza.
Sorridendo ce ne andiamo.

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Lacrime di San Lorenzo
di Gölem

Ancora nulla.
Mi avevano detto che il giorno dopo di stelle se ne vedono anche di più. Invece sono ancora qui ad aspettare di vedere la prima.
Eppure la valle è buia, hanno addirittura spento i fari del centro sportivo.
Gli ingredienti ci sono tutti perché ne venga fuori una bella serata: c'è la notte, complice e silenziosa; c'è la mangiata di pizzoccheri di qualche ora prima; c'è il torrente, che qui si allarga in un calmo laghetto; c'è il terreno, uno scivolo liscio di roccia che scende fino all'acqua, sembra fatto apposta per coricarvisi sopra; c'è la compagnia migliore che io possa avere.
Del desiderio da esprimere alla vista della stella non mi importa un tubo, voglio solo riuscire a vedere una cazzo di stella! Ecco, solo questo è il mio desiderio, e lo ho espresso in anticipo.
Cerco sul viso a pochi centimetri dal mio un cenno di conforto ma non serve: come tutti gli altri è puntato in su, ma non vi leggo il disappunto che so essere presente sul mio.
Bello prendere tutto quello che passa col sorriso sulle labbra, bello godere di quello che si ha senza cercare dell'altro, mi rassegno ben volentieri alla truffa sanlorenzina .
Nero pece nel cielo, stelle ce ne sono ma ferme, e si fanno beffe del mio vagare con lo sguardo. Allungo un braccio e mi stringo a tutto quanto tengo veramente. In due è comunque tutto più bello.
Eccola! Una traccia rapida e ben marcata, che vive appena il tempo di essere scorta. Ora è tutto davvero perfetto. Non ci credo, ma il desiderio lo ho espresso lo stesso.

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Tema: Una gita in compagnia di me stesso
di Gölem

Svolgimento:
Oggi sono salito in Maddalena.
Non avevo voglia di alzarmi presto al mattino, ultimamente dormo un po' poco.
Mi sono svegliato - come quasi sempre mi accade - nel bel mezzo di questa città, che solo ora, dopo la sbornia estiva, ricomincia a popolarsi. Nel serbatoio della macchina solo pochi litri, nelle gambe di benzina ce n'è anche meno.
Non so che mi prende nel pieno dell'estate, quest'anno ancora più dei precedenti: il guaio è che fa troppo caldo, poi le ferie sono giusto appena trascorse, dietro l'angolo ad intorpidirmi la mente e le membra.
È un'inedia antica, questo pascersi tiepido nelle lenzuola il tardo mattino, dalla quale volentieri io mi lascio vincere.
Oggi non ho nessuno che mi accompagni su per i monti. Ho voglia di farmi una bella pascolata.
L'avvicinamento è comodo e veloce: undici chilometri di curve e tornanti su strada asfaltata, uno scherzo per il motore della mia Fiesta!
Il grande piazzale nei pressi della cima è occupato solo da poche vetture, qualche famigliola in gita, e probabilmente qualche coppietta che la sera prima ha finito per addormentarsi.
Fa già più fresco mentre muovendo i primi passi getto un occhiata giù sul mucchio di strade e case gettato sulle pendici del monte.
Cammino con le mani in tasca mentre mastico la mia caramella preferita, scompaio nel fitto del bosco liberandomi della maglietta sudata.
Quello lì è il ramo traverso dove mi appendevo tanti anni fa, invece quello la in fondo è il tratto più impegnativo del sentiero, dove una volta sono scivolato: sorrido, la guida del CAI-TCI a causa della scivolosità con il bagnato, forse lo valuterebbe T+.
Uno sguardo alle pareti poco distanti: osservo ammirato le evoluzioni dell'arrampicatore di turno sul calcare, è su una via dura, ma forse oggi me la godrò di più io.
Il sentiero è breve e gradevole, e sbuca nei pressi di una pozza d'acqua, al centro di una radura, per poi proseguire oltre. Ma io ne ho già abbastanza, qui ho già tutto quello che voglio.
Mi sistemo in terra e guardo il cielo tra i rami dei castagni, le nuvole corrono rapide spazzate dal vento, e di tanto in tanto una foglia si stacca andando a planare sulla superficie dello stagno, scarabocchiandola di cerchi.
Mentre i minuti passano mi accorgo della presenza di una rana, se ne sta immobile in un giaciglio di fango, proprio sull'orlo della pozza. A tratti le gote le si gonfiano e posso vedere delle minuscole gocce di acqua che le scivolano sopra, potrei fissarla per ore. Invece lei, forse accortasi delle mie attenzioni, stacca un salto improvviso e si immerge sott'acqua, lasciandomi di nuovo solo, ma a me in fondo va benissimo così.
Oggi non ho proprio voglia di sprecare il mio tempo a fare qualcosa di utile o costruttivo, preferisco farlo fruttare dedicandomi a qualcosa di inutile e di fine a se stesso, come l'auto-compiacermi dello stare immobile e zitto nel fermo silenzio del bosco.
Le ore sono volate.
Mi rivesto in fretta e me ne torno alla macchina.
Di nuovo mi stupisco di quanto godimento mi possa dare lo stare a bassissima quota, camminando solo pochi minuti, e in totale assenza di difficoltà alpinistiche.
Mi piace la montagna, tutto il resto è di contorno.

 

Lo zaino del Pio
di Omar

Questa è una storia semplice. Una di quelle che si ascoltano facilmente, e altrettanto facilmente si dimenticano. Una di quelle storie che se ne potrebbero scrivere a centinaia, fatta da persone e cose semplici. Una storia che vale la pena raccontare: la storia dello Zaino del Pio.
Chi di voi, come me, passeggia per monti o si arrampica su pareti vertiginose, sa quanto uno zaino sia importante per la nostra piccola o grande avventura.
Nessuno vorrebbe mai abbandonare il proprio zaino. Eppure tutti prima o poi l'abbiamo fatto, ci siamo alleggeriti le spalle stanche da quel pesante fardello che ci bloccava il respiro e ci gravava nella mente prima ancora che nel fisico. L'abbiamo lasciato su un sasso, nella neve, in un prato ripido. Abbiamo raggiunto la cima, siamo discesi per riprendercelo nuovamente sulle spalle e abbiamo avuto i brividi per pochi secondi al suo contatto con la nostra schiena.
Anche il Pio quel giorno ansimava oltre misura a quasi 4000 Mt.. Non ne poteva più di salire, guardare in alto e salire ancora. Mancavano poche centinaia di metri alla croce e quel pendio ghiacciato era più ripido del solito. Il sudore, misto forse alle lacrime di rabbia, entrava negli occhi annebbiati. I primi terribili pensieri di vergognosa rinuncia si aggiravano nella sua mente satura di isole caraibiche, palme ondeggianti, sabbie calde e candidi seni al vento.
Il suggerimento che arrivava dall'alto quasi non veniva colto al volo, forse troppo logico per essere vero: “lascia giù lo zaino!”.
Gli occhi brillavano di gioia. La speranza di arrivare anche oggi là, dove pochi arrivano, si mischiava alla sensazione di sentirsi un traditore.
Eppure lo lasciava giù.
Lo sdraiava piano piano. Lo metteva al riparo dai blocchi di neve e ghiaccio che ogni tanto piovono dall'alto. Lo lasciava su quelle rocce che benevole e asciutte emergono dal ghiacciaio. Qualcuno giura di averlo visto mentre accarezzava il suo zaino e gli toglieva un po' di neve bagnata dal fondo.
Eppure lo abbandonava.
Uno zaino non ha occhi per vedere e orecchie per sentire, non ha bocca per chiamare o braccia per stringerci.
Ma uno zaino sente le nostre sensazioni, percepisce i nostri umori.
Lo Zaino del Pio, quel giorno, ha percepito che stava per essere lasciato solo.
Se avesse avuto occhi avrebbe pianto e le sue lacrime si sarebbero ghiacciate subito.
Se avesse avuto una bocca, avrebbe urlato di tornare da lui, l'avrebbe fatto con tutto il fiato che aveva nei polmoni; avrebbe chiamato fino allo stremo il suo compagno di avventure che si allontanava da quella roccia asciutta per andarsene chissà dove.
Se avesse avuto orecchie avrebbe sentito il vento freddo che fischiava tra lui e chi lo stava lasciando al suo destino.
Se avesse avuto le braccia, si sarebbe trascinato sulla neve e avrebbe raggiunto il traditore.
Se avesse avuto i piedi, lo avrebbe preso a calci in culo, quello sporco traditore.
Ma la cosa che più lo faceva stare male era che non capiva. Non capiva quella sua solitudine improvvisa, il gesto inconsueto del suo compagno. Cosa significava quella carezza? Adesso era sicuro, nessuno sarebbe più tornato e nessuno l'avrebbe mai più messo su spalle larghe e comode e gli avrebbe fatto provare la libertà di viaggiare per monti, sentire il senso di pace che c'era lassù.
Adesso era solo ed aveva freddo. Aveva avuto freddo alte volte, molte altre, ma stavolta era un freddo strano, mai provato. Si sentiva gelare dentro ed aveva paura.
Una paura fottuta.
Piano piano il sentimento di paura si stava trasformando in rabbia. Rabbia verso quel ragazzo che un bel giorno era entrato in un negozio e, davanti a tanti zaini, aveva scelto proprio lui. Lo aveva toccato, guardato, aperto e pesato, lo aveva studiato a fondo e alla fine lo aveva scelto in mezzo ad altre decine. Lo aveva fatto sentire speciale, così come si sente speciale una ragazza, scelta tra alte mille.
E proprio come una ragazza sedotta e abbandonata, si sentiva adesso. La rabbia lo stava facendo esplodere.
Ricordava perfettamente il caldo sul ghiacciaio dell'Adamello, il vento spaventoso del monte Cengledino, la nebbia densa come zucchero filato al monte Pagano, la pioggia incessante in Valcanale, i fulmini che lo facevano vibrare come corda di violino sullo spigolo del Badile. Ripensava ai prati caldi e morbidi del rifugio Gherardi, alle rocce taglienti e friabili come biscotti secchi sul Diavolo di Malgina, all'acqua fresca e blu del lago di Coca, al suono della campana del Campanile Basso. Si immaginava di nuovo sugli strapiombi della Val di Mello, tra i fiori dell'Arera, nella neve della Val Grande, appeso alla corda dopo la caduta al Medale.
Ma non era più là. Non era sdraiato accanto alla croce del monte Pegherolo, adagiato mollemente sulla vetta della Cima Grande, o addormentato fuori da qualche splendido e solitario bivacco dolomitico.
Non era più…Proprio in quel momento sentì un dolore lancinante ad un fianco. Qualcosa di pesante, appuntito e freddo lo aveva colpito all'improvviso, qualcosa precipitato dall'alto. Forse un grosso pezzo di ghiaccio si era schiantato su di lui, immobile, indifeso e solo. Si sentiva morire dal dolore. Anzi, probabilmente stava morendo. Non aveva mai pensato di poter morire, lui, così giovane e allegro, così pieno di speranze e di sogni. Con tutti quei posti da visitare sulle spalle di…
Sulle spalle di chi? Non c'erano più le spalle di nessuno, ormai.
Faceva sempre più freddo.
Il resto della storia non lo ricordo molto bene.
Ricordo però di aver visto una mano accarezzare quello zaino, ripulirlo da un po' di neve che lo ricopriva e levare un grosso pezzo di ghiaccio incastrato tra gli spallacci.
Ricordo di aver visto un ragazzo, con un sorriso grande così, caricarsi quello zaino sulle spalle. Quel ragazzo era il Pio.
Non lo posso giurare, forse ero troppo stanco, forse avevo fame, forse sete, o altro…ma sono sicuro che anche lo zaino sorridesse.
 

 

Uomini e pietre
di Gölem

Mi piacciono questi paesi sospesi sopra le valli, immutati ed ancora intatti come lo sono da secoli le creste montuose che gli fanno da quinte. Mi piace perdermi tra i loro muri incrostati di pitture vecchie, fioriti - se fa bello - di panni stesi al sole. Mi sembra familiare l'odore acre dei camini accesi, e quello dei covoni di fieno abbandonati a sporgere da questa piuttosto che da quella finestra. Sapete, a volte, quando piove, i sassi del selciato diventano isole di torrenti in piena, e i gradini degli usci scogliere a picco sull'acqua.
Chi di voi si è trovato ad ascoltare il suono dei propri passi su quelle vie lastricate di pietra sa a cosa mi riferisco.
C'è un qualcosa di intimo nel soffermarsi a spiare dentro le finestre accese al calare del buio, poche per la verità, ma per questo ancora più evidenti.
La montagna si va spopolando, si sente dire, eppure ci sono tantissime persone abbarbicate qui sulle pendici delle montagne. Se mi seguite con un po' di pazienza ne andremo a trovare alcune, speriamo non ne abbiano a male per il disturbo.
Pochi passi appena fuori dal centro e siamo arrivati, qui di abitanti ce ne sono davvero tanti, ne sanno certamente una più del diavolo, qui sopra tra questi pascoli e in mezzo a questi boschi hanno visto sorgere e calare il sole migliaia e migliaia di volte.
Anche qui le loro case sono tutte in pietra, sono però un po' più distanziate tra loro, quasi allineate nel prato, alcune abbracciate dalla felce, altre dal cardo. In ogni modo, sicuramente devono essere molto umide.
Direi che potremmo cominciare da qui, e poi, seguendo il muretto, andare a conoscere gli altri. Questo è Giovanni, il figlio di Bortolo, e fino a pochi anni fa faceva il tuttofare, tutti quanti avevano qualcosa da aggiustare bussavano alla sua porta. Tutto: falci e carriole, serrature e tubature rotte, perfino piccoli elettrodomestici, ma aveva dovuto imparare per forza, sai che fatica altrimenti dover scendere in paese ogni volta che qualche compaesano gliene portava uno? Giovanni per la verità è sempre stato un po' irascibile, eppure guardatelo che bel viso sorridente che ha adesso, ora che avendo smesso con il lavoro si gode il meritato riposo.
Qui vicino al rosmarino vive Sandro, ma ora dorme, e siccome ha sempre avuto il sonno leggero direi di tirare dritto. Ecco, qui conviene fermarsi senz'altro: vi presento il vecchio Antonio. Poverino è sempre stato malato, ma guardate voi stessi, io direi che ora sta meglio. Negli ultimi 20 anni non usciva mai di casa, ci pensava la Cesira a fargli la spesa e a sbrigare le sue commissioni, ora credo proprio che si arrangi.
Pochi passi ancora e c'è Anna , guardate: c'è anche suo marito. Tutti i bambini del paese hanno indossato i suoi maglioni di lana o le sue sciarpe, e ora cresciuti li conservano per i figli. Se guardate ad ogni finestra del paese, noterete sicuramente una delle sue celebri tendine bianche; da giovane era stata anche molto bella, ha vinto un concorso una volta in città! Poi un giorno ha preso su tutte le sue cose e con il Giuseppe è andata in America, che là si mangiava tre volte al giorno. Non si sa bene cosa abbiano trovato giù là, fatto sta che ora sono tornati, tutti e due, e sembrano entrambi felici.
Non parlate al Paolino di suo cugino Alessio, ora che lo raggiungiamo. Basta il solo nome per mandarlo su tutte le furie. Girano tuttora voci in paese che molti anni fa, ubriaco disfatto dopo il battesimo di una nipote, avesse rotto un bastone in testa al cugino che lo canzonava, ferendolo a morte. In realtà nessuno ha mai potuto stabilire cosa accadde veramente quella sera, e Paolino (tutt'altro che minuto nonostante il nome) ha continuato a vivere tra queste case di pietra, con il suo segreto, ma è stato tanto tempo fa…
Se passate oltre queste pozzanghere potrete conoscere Nicola, il donnaiolo del paese. Auguratevi di non avere moglie di queste parti perché ci sarebbero buone probabilità che lui la conosca meglio di voi! Nicola è effettivamente un gran bell'uomo, un atleta ed un alacre lavoratore, non esistono in tutta la valle uomini più rapidi ed efficienti nell'abbattere gli alberi. Nicola disbosca e vende la legna, ed è pure un buon cacciatore. Ha girato in lungo ed in largo tutti le montagne circostanti, si arrampica sulle rocce come un gatto e vede più lontano di tutti. Vabbè, pure lui un giorno è caduto, ma nessuno è perfetto!
Se mi promettete di fare i bravi vi faccio vedere la Cesira, ve ne avevo già accennato. Lei è la ragazza più ambita del paese, ma nessuno è mai riuscito a farla sua. Vedete che bei capelli lunghi, perfetti, e che bel viso da bambolina che ha? È anche molto dolce e disponibile a dare una mano a tutti, poi quando si mette a cantare in chiesa ti fa davvero sciogliere il cuore. Forse è l'abitante del paese che ha vissuto più tempo a fondovalle, ha studiato e si è addirittura diplomata, legge tutti quei libri impolverati di cui tutti gli altri non sanno neppure l'esistenza nella biblioteca della parrocchia. È proprio vero: le donne più care è bene che restino per tutti, gli anni sono passati, oramai non se la sposerà più nessuno.
Stefano è l'uomo più saggio senza dubbio, ha fatto tutte e due le guerre, e ora passa tutti i suoi giorni a guardare giù nella valle. Da dove sta lui si gode della vista migliore.
Ecco il parroco, don Fausto. La sua famiglia è della città, ma ora credo che non gli rimanga più nessuno. Lui probabilmente è più bravo a bere la grappa che non a dire messa, comunque è un buon parroco, tutti gli vogliono bene. Vengono sempre tutti a trovarlo.
Quello là è il Sangiorgi, dietro la sua barba c'è una rete ancora più impenetrabile di rughe. Piuttosto che tirare fuori due lire per sistemare il suo tetto si farebbe scuoiare. Anche qui dove sta ora occorrerebbe una bella sistemata, ma andate voi a trovare qualcuno che abbia il tempo e la voglia di farlo, lui ha altro da fare! C'era una sua tenuta giù in valle ma è andata in malora, il Sangiorgi odia scendere giù. Per quanto se ne sa sarà sepolta sotto metri di rovi oramai, ci faranno probabilmente il nido i serpenti.
L'ultima persona che ci tenevo a farvi conoscere è Martino, il casaro. Ha una malga trenta minuti su verso il monte, ma ora cade a pezzi. Il suo gregge lo ha sempre tenuto occupato 24 ore al giorno, i figli lo vedevano solo all'ora di cena, oppure quando ne combinavano una delle loro. Ora vivono da qualche parte in città. Anche lui non è quasi mai sceso a fondovalle, se non per curarsi dalla polmonite in quel piovoso inverno del 1951 e quella volta che si è sposata la sua unica figlia, nel 1965. È sempre vissuto in questo paese fino al 3 gennaio del 1974, c'è scritto qui, proprio sulla sua pietra, se spostate il muschio si vede bene.

“O tu che guardi in su
io fui come sei tu
tu verrai come son io
pensa a questo e va con Dio”.

Scritta presso la santella in località Pisul,
Ono San Pietro (Brescia), in cui un teschio parla al viandante

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Lucy in the sky
di Omar

A guardarla bene, non le avresti certo dato la sua giusta età.
Saranno stati quegli occhi scuri e profondi, velati, forse, da un non so ché di triste e di terribile.
Sarà stato per il suo corpo ben fatto e robusto, temprato, forse, da lunghe camminate verso chissà quali mete e da chissà quale girovagare invano.
Sarà stato quel modo di guardasi attorno, stupita, forse, da ogni cosa che vedeva e che le si muoveva attorno con brutale indifferenza.
Non entrò mai nel rifugio, rimase lì fuori, senza curarsi del nostro privilegio di instaurare rapporti di amicizia con sconosciuti. Lei, forse, non l'avrebbe mai più fatto.
Con la scusa di una boccata d'aria fresca, sgattaiolai fuori per poterla guardare da vicino, vedere le sue reazioni e magari scambiare qualche emozione.
Mi guardò di traverso vedendomi arrivare.
Le feci il sorriso più dolce che potessi regalare a qualcuno.
Mi ignorò, diffidente.
Rientrai, abbattuto, deluso, un po' ferito nel mio orgoglio di uomo e cercai consolazione accanto a chi non rifiuterà mai un mio sorriso.
Il mattino successivo, al risveglio dopo i festeggiamenti , uscì nuovamente per riscaldarmi al primo sole dell'anno.
Lei era già lì.
Bella e severa. Sguardo serio e distaccato da tutto. Annusava l'aria tersa e frizzante. Sembrava ancora più sola e incazzata con il mondo intero.
Mi incamminai verso il bosco e passandole accanto le rivolsi un saluto, quasi scocciato.
Credo non si accorse neppure del mio passaggio, voltò leggermente il collo, come se volesse farsi accecare del sole ancora basso.
Non la sentii arrivare… Forse ero assorto nei miei vaneggiamenti o nei miei sogni, o forse stavo pensando proprio a lei.
Si sedette accanto a me su di un masso tiepido ed asciutto.
Rimanemmo così, a lungo, guardando i monti rocciosi di fronte a noi.
Il sole si fece alto e ci incamminammo lontano, verso luoghi più silenziosi. C'eravamo solo noi. Ci fermammo fuori da una baita vuota, appoggiai la schiena al muro caldo e solido e lei mi venne vicino, molto vicino.
Il suo sguardo era ancora severo, ma adesso, forse, si fidava di chi le sedeva accanto.
Azzardai una carezza. Non capii mai se la accettò con piacere o la sopportò in silenzio.
Era ancora troppo presto, doveva passare altro tempo prima che si lasciasse trasportare nuovamente dai sentimenti e dalla dolcezza che una volta riempiva i suoi occhi scuri.
Da infiniti giorni non rimaneva accanto ad un uomo.
Nessuno dei due disse mai nulla.
Ci alzammo e tornammo al rifugio, io davanti e lei un passo dietro me.
Non entrò neppure questa volta, si fermò a pochi metri dalla porta e mi guardò.
Parve chiedermi di non entrare, di fuggire con lei verso boschi nuovi, verso tramonti lontani, verso un prato dove sdraiarsi a guardare il cielo. Per un attimo mi sembrò di volere esattamente tutto questo. Per un attimo, brevissimo, siamo corsi verso prati, verso tramonti e verso boschi nuovi.
Ma forse non capii, o forse non guardai bene nei suoi occhi.
Così entrai. E lei rimase fuori.
Mentre chiudevo la porta, mi voltai un'ultima, un mangiacassette suonava a basso volume “Lucy in the sky with diamonds” dei Beatles.
Mi stava fissando, severa e bellissima.
Annusò l'aria, riconobbe odori a lei famigliari, raddrizzò le morbide orecchie attente, agitò la lunga coda scura e se ne andò.

 

 

Il Risveglio del Gigante
di Nuvolarossa

E' finalmente arrivato il momento.
Sono in viaggio da un mese, in Patagonia da 1 settimana, a El Chalten da 2 giorni, ma non ho ancora potuto avvicinarmi a Lui.
Finalmente questa mattina si parte. Il tragitto non è molto lungo, ma gli appassionati di montagna come me non stanno più nella pelle!
Dopo circa 3 ore di cammino usciamo dal bosco e all'improvviso possiamo scorgere la sagoma del Torre, in tutta la sua grandezza. Vengono sfoderate macchine fotografiche come se fossero pistole e tutti iniziano a sparare all'impazzata contro di Lui.
Non è facile colpirlo, è molto lontano e si nasconde nelle nuvole.
Ci vorrebbero armi più sofisticate. Ecco allora che si riprende il cammino fino ad arrivare ai suoi piedi. Da qui è tutta un'altra cosa, ma ormai è troppo tardi. I rumori delle armi lo hanno spaventato.
Ma cosa sto dicendo? Lui non si lascia spaventare da noi! Anzi, gioca con noi, ci prende in giro. Ci fa credere di lasciarsi fotografare e poi, via.
E' come giocare a nascondino dove vince sempre Lui!
All'improvviso la sua sommità si sveste...scruto nella sua intimità col binocolo e vedo una cordata di alpinisti che arrivano al fungo. Sfoderano le piccozze ed iniziano a ferirlo profondamente per giungere in poco tempo sulla sua "cumbre". Le sue amiche nuvole, addolorate, iniziano a piangerli addosso, non ci resta che tornare al campo base ed aspettare.
Ansiosi dormiamo poche ore e, prima dell'alba, siamo nuovamente ad ammirarlo!
Lui sta ancora dormendo, noi restiamo in silenzio per non svegliarlo. Sono momenti indimenticabili. Spunta il sole, notiamo che le sue pareti sanguinano per le ferite infertegli dagli alpinisti poche ore prima. Momenti di commozione, dove il silenzio dice più delle parole.
I minuti passano velocemente, il sole si alza e il granito cambia colore. Ecco svelato il mistero; il Torre non era ferito.
Inizia ad arrivare gente. Lui si accorge di essere osservato. E' un attimo. Chiama a se le sue amiche nubi e tutto cambia.
Siamo tra i pochi ad avere potuto ammirare il suo risveglio.
 

 

2150
di Omar e Gölem

231.09.2150 - Ore 91.12.04
Guardo l'altimetro per l'ennesima volta.
Il quadrante indica 15.610 Mt. sul livello del mare.
Siamo a poco meno di metà salita.
Sotto di noi, il rumore delle enormi onde marine, alte fino a 200 Mt., si è ormai attenuato e lo percepiamo come un lontanissimo ruggito. Il colore rosso del cielo si confonde, in lontananza, con quello arancio del mare. Le dense nuvole nere, segno che il tempo rimarrà bello per almeno 5-6 giorni, ruotano velocissime in un gigantesco vortice il cui centro si è stabilizzato proprio sulla verticale della cima del monte Olimpo, la nostra meta.
L'odore di zolfo riempie l'aria e penetra attraverso le maschere dell'ossigeno che ci consentono di respirare in questa atmosfera pregna di solfati e metano.
La temperatura, stando all'indicazione scritta nel piccolo monitor negli occhiali, oscilla continuamente tra i -120°C e i -160°C , altro buon segno di tempo favorevole.
233.09.2150 - Ore 102.61.14
Non dovrebbe mancare molto al rifugio. La decima tappa della nostra salita dovrebbe concludersi in poco meno di 135 minuti primi, ma il condizionale è d'obbligo stante il momentaneo black-out dei sistemi di localizzazione satellitare di cui disponiamo, ma a queste temperature a volte capita, soprattutto se non si mantengono le batterie sempre cariche.
Siamo in una specie di canalone dai bordi molto scoscesi, ricolmo di detriti instabili, occorre prestare la massima attenzione per non rovesciarli sugli alpinisti sottostanti.
Comincio davvero ad avere un dolore fitto alle caviglie, sono giorni ormai che arranco su per queste rocce, e poi ho un bisogno impellente di pisciare. Mica facile con tutta questa ferramenta addosso!
Si scorgono già le luci del faro fisso, oramai si tratterà di pochi minuti, ci siamo quasi grazie al cielo. Eccolo lì l'ingresso, il rifugio appare pressappoco come tutti gli altri, scavato sotto la dura crosta della montagna, per evitare di venire alla lunga spazzato via dal vento di corpuscolato, così caratteristico in queste lunghe stagioni estive.
Sbrighiamo come da routine le pratiche al check-in, mentre la graziosa receptionist immette i nostri dati già mi immagino appisolato tra i vapori della sauna.
233.09.2150 - Ore 104.00.00
La cena, a base di delizie del posto (molluschi giganti, carne di bilemonte, frutta stabilizzata e arricchita con amminoacidi essenziali, nettare di salicone) riesce in poco tempo a ridarci forza e morale.
Per sgranchirci un poco le ossa, ci rilassiamo nella bellissima veranda del rifugio coperta da una enorme cupola trasparente e al cui interno, oggi, vengono diffusi profumi di mare e suono di vento.
Lo spettacolo è fantastico, proprio adesso all'orizzonte sta sorgendo la terza luna, quella azzurra, le prime due, una verde, l'altra bianca come la nostra, sono già alte nel cielo e alle ore 104 è prevista una tempesta di meteoriti che illuminerà la volta celeste.
Puntualissime, ecco le prime scie luminose che graffiano il cielo nero. Sono tantissime e estremamente vicine. Se non fosse per la protezione in vetro ascrimetato che ci ricopre e protegge, potremmo sentirne perfino il rumore assordante. Questa meravigliosa pioggia, prevista da giorni, purtroppo ci obbligherà ad una sosta più lunga del previsto in questo rifugio; sarebbe pericolosissimo avventurarsi all'esterno, sia per l'alta probabilità di venire disintegrati da un bolide, ma anche per le tempeste magnetiche che seguono sempre questi eventi spettacolari ma devastanti. Al termine della tempesta l'aspetto della zona colpita sarà completamente cambiato, nuovi insuperabili crateri ci sbarreranno la strada, altissimi cumuli di rocce friabili ci costringeranno a deviazioni e noi dovremo rifare il piano di avanzamento verso la cima, ancora una volta.
238.09.2150 - Ore 12.27.96
Dopo cinque giorni di immobilità possiamo nuovamente mettere il naso fuori dal rifugio, la strada è ancora parecchia, ma per lo meno ora siamo più riposati.
Sono riuscito a sistemare il localizzatore, non dovremmo più avere punti interrogativi nelle nostre tabelle di marcia da qui in avanti.
A volte mi domando come sia esplosa questa moda per l'alpinismo d'alta quota; quando vedo la lunghissima fila dei salitori perdersi nelle nebbie della montagna, mi ricordo di quei piccoli organismi pluricellulari che popolavano un tempo le mie zone. Procedevano tutti in fila, mai una che si azzardasse di calcare del terreno vergine. Ogni tanto buttavo loro una briciola e loro, esili e fortissime, trascinavano quella manna con i denti fino ai loro buchi.
Siamo qui, individui tra le altre decine di migliaia su questo versante, ad ogni check-point segnaliamo la nostra posizione, ad ogni rifugio registriamo l'ennesimo ingresso, oggi avrei voglia di perdermi…
009.10.2150 - Ore 25.84.84
La paretina che ci si presenta davanti, non è delle più difficili, ma i chiodi da ghiaccio faticano ad entrare in questo idrocarburo allo stato solido. Ci vuole moltissimo tempo per riuscire a fissarne uno, alzarsi di pochi metri, fissarne un secondo, recuperare il compagno e ripetere nuovamente l'operazione.
Il secondo sole è già alto quando usciamo, con un forte sospiro di sollievo, da quello che si rivela ben presto, a causa dell'innalzarsi della temperatura, un imbuto per grossi massi verdastri perfettamente rotondi che cadono dall'alto a velocità incredibili. Li vediamo scheggiare lungo il percorso appena superato e pensiamo a quanti salitori sono adesso esposti a quei proiettili enormi. Proprio mentre stiamo ringraziando la saggia decisione di partire nel cuore della notte per trovarci oltre le difficoltà quando il termometro avrebbe segnato -100°C , vediamo in lontananza un costrol che avanza barcollante sulle sue sei zampe. Sembra gravemente ferito, forse colpito da uno di quei massi. Lo soccorriamo immediatamente. Il suo compagno è precipitato e lui è sotto shock, emette versi a noi incomprensibili, ma dai suoi 4 grandi occhi blu capiamo che necessita di un immediato ricovero, forse anche lui è stato colpito di striscio ad una zampa. Lo portiamo al riparo sotto una roccia sporgente e gli facciamo un iniezione di Valostrin. Non ci resta che emettere un segnale di soccorso. Lo sguardo di gratitudine del costrol ci riempie di gioia e ci rende orgogliosi. In meno di 1 minuto primo una navicella ci raggiunge, senza chiedere nulla, carica il ferito e si allontana a velocità impressionante verso il primo rifugio dotato di centro medico. Quest'ultimo imprevisto ci costringe all'ennesimo ritardo nella tabella di marcia, ma avere, forse, salvato la vita ad un essere vivente ci dà nuova forza per continuare e ci ricorda quelle leggende di alpinisti eroici che, moltissimi anni fa, rinunciavano alle loro imprese per salvare i loro simili. Saranno state solo leggende o, a volte, quei gesti misericordiosi succedevano veramente? Purtroppo si tratta di tempi lontanissimi, quando esisteva uno spirito e un codice d'onore da rispettare tra camminatori.
Tempi lontanissimi, ormai.
011.10.2150 - Ore 51.27.67
Il costrol è morto.
Dopo alcuni giorni di carenza di notizie (dovute ai disturbi elettromagnetici d'alta quota) siamo finalmente riusciti a ricevere un notiziario. E' morto poche ore dopo il ricovero nonostante un intervento praticato d'urgenza. Spero che almeno ora il monte Olimpo non agiti più oramai il sonno di quel disgraziato alpinista.
Noi invece siamo oramai prossimi al pianoro sommitale, ancora poche centinaia di metri e dovemmo raggiungerlo.
28.030 Mt. mettono a dura prova anche gli alpinisti più forti in assoluto, noi siamo in pratica devastati. Abbiamo lasciato un nostro compagno due rifugi fa in preda al delirio, ha perso l'uso degli arti e il suo corpo è scosso da tremiti incontrollabili. Al nostro ritorno, quando questo avverrà, lo faremo trasferire al centro bioptico di Phasar2, fino ad allora dovrebbe restare stabile.
Stiamo superando un camino strapiombante, nero e unto di liquami organici, la progressione artificiale ci permette di proseguire ma a prezzi altissimi in termini di tempo impiegato.
Le precipitazioni di metano hanno reso l'attrito sulla roccia molto prossime allo zero, se non altro il tempo si mantiene stabile.
…Mantre cerco un phul ad espansione ad impreviso mi sembra di avere sei dita, ma forse invece sono sempre cinque, o forse meno, non ricordobbene.
Se riesco a scollegare il termometro di domani mattina riesco a vedere bene, non so… Davvero no è facilissimo fare pure pensieri connessi quanto meno abbastanza per intendere ad altrui.
Tenniamo duro anchora un poo. Manca poco già vedo la luche… rifugio prossimandosi…
011.10.2150 - Ore 65.27.67
Una bellissima ragazza si tuffa nel mare color rubino, i capelli azzurri legati in una lunga coda di fastorone, gli occhi a mandorla sono scuri come i fiori di nemesia e la pelle leggermente abbronzata. Finalmente possiamo riposarci in questo paradiso abbandonato dalle masse di turisti interplanetari. Il tiepido calore di Bitos ci entra piano piano attraverso la pelle nuda, arriva alle nostre ossa stanche e decalcificate. La brezza marina ci purifica i polmoni dalle sporcizie respirate per giorni e giorni alle altissime quote di Olimpo. Anche i nostri discorsi esulano completamente dalla montagna, dal ghiaccio, dalle ferite, dalle fatiche indescrivibili, dalle lacrime e dal dolore. Stiamo ridendo tutti e quattro attorno ad una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Come al solito c'è chi mangia di più, chi si sbronza, chi guarda il culo della ragazza in mare e chi dorme pacifico il sonno dei giusti.
Ho proprio voglia di tuffarmi in questo mare caldo, mi alzo, mi avvicino all'acqua che, mentre mi bagna i piedi, mi scalda anche il cuore. Faccio un passo e l'acqua mi arriva già alle ginocchia, mi getto come un pesce e quando riemergo…il mio compagno mi urla di tenere duro, di non agitarmi.
Mi trovo a testa in giù, la corda tesissima, mi preme fortissimo sull'inguine, lo zaino rigido mi impedisce di respirare e tutta la ferraglia che ho addosso mi si rovescia in faccia e mi rompe il vetro della maschera. Non vedo un cazzo! Questa volta è proprio finita. Lo sapevo che dovevo smetterla con i monti, con questi viaggi per pianeti alla ricerca del più difficile, del più in alto, del più irraggiungibile. Dovevo smetterla di allontanarmi dai miei prati verdi, dalle mie nevi bianche, dai miei profumi, dai miei pensieri, dai miei amori.
Mi lascio penzolare esausto e senza voglia di lottare.
Ma dall'alto mi gridano di non mollare, mi gridano che qualcuno a casa mi aspetta.
Cerco di rimettermi dritto sparando un arpione nel ghiaccio di questo crepaccio e aggrappandomi al suo cavo metallico. Con immane fatica mi raddrizzo, grazie anche al lavoro di chi mi sta tenendo la corda dall'alto. Sostituisco la maschera prima che le radiazioni mi devastino gli occhi e lentamente vengo issato sui bordi del baratro traditore che mi ha inghiottito e voleva uccidermi. Ringrazio i miei compagni che ancora una volta mi hanno salvato la vita, non solo con i gesti, ma anche con le parole.
Ma non c'è tempo da perdere, la vetta è a pochi metri. Anche noi rispetteremo la tradizione e non toccheremo la cima del monte, rimarremo a circa 100 Mt. di distanza.
Riprendiamo a salire e mentre cammino penso a casa e mentre mi immagino mentre sui miei monti verdi, ripenso ad una bellissima ragazza dagli occhi neri che nuota in un mare rosso rubino.[…]
097.05.32560 - Oggi
Quando le luci si riaccendono, l'intera sala è ammutolita.
Il professor Qwrestium, massimo esperto intergalattico di preistoria del sistema solare, si alza dal tavolo degli organizzatori del XII° congresso sulle antiche popolazioni della Via Lattea scomparse e i loro usi e costumi.
Lo stupore generale e la meraviglia per la visione del rarissimo documento appena trasmesso sugli schermi ad elio della sala principale del centro congressi di Salvas 23, si legge benissimo sui volti delle centinaia di studiosi presenti.
“E' chiaro che quanto appena reso pubblico è il frutto di anni di lavoro, di traduzioni, di ricerca e di studi.
Dall'epoca della distruzione del leggendario pianeta Terra, nessun reperto che parlasse dei suoi abitanti era stato trovato.”
Il professore parla con voce calma e senza enfasi, ma ciò che sta dicendo rivoluzionerà la storia come nessun altra scoperta fatta negli ultimi 10.000 anni.
“Come ben sapete dai testi di preistoria, il collasso della stella Sole, ha causato la distruzione del Sistema Solare e di tutti i piccoli pianeti che lo componevano. Dalle ricerche sono emersi dati inconfutabili che ci indicavano che uno di questi pianeti fosse abitato da primitive forme di vita. Purtroppo i reperti catturati dai nostri strumenti all'interno di ciò che rimane di quella zona dell'universo non comprendevano mai documenti, ma solo particelle e atomi che avevano subito manipolazioni non naturali, per cui dovuti sicuramente a qualche forma di vita.”
“La teoria che le varie forme di vita dell'universo si siano formate a partire da quella esplosione e dal conseguente spargimento di materiale organico nella galassia, forse ha trovato le sue prove…”
“Ciò che avete appena visto proviene dal Monte Olimpo, una piccola anomalia geologica del pianeta Xass4. Era contenuto in un cilindro di tungsteno e sepolto sotto centinaia di metri di metano ghiacciato a poca distanza dalla cima di quel monte. Durante gli scavi per la costruzione del mausoleo del famoso esploratore Freen: un trivellatore lo ha liberato dal suo sepolcro naturale e ci ha regalato la chiave per la conoscenza di un mito del passato: l'Homo sapiens evolutus!”
Il professore beve del nettare di acside con la sua lunghissima proboscide e con gesti studiati riprende a parlare “ In questo documento si colgono aspetti del comportamento umano che fino ad ora conoscevamo solo da leggende e racconti fantastici. Ora abbiamo qualcosa di tangibile.
Dalla analisi approfondita dei geroglifici che compongono il testo siamo venuti a conoscenza di alcune abitudini, di alcuni costumi, di attrezzature usate all'epoca. Scopriamo i sentimenti, i cibi di cui si nutrivano, i legami affettivi…” Per non parlare delle immagini memorizzate su antichissimi supporti magnetici, allegate al testo ritrovato, che possono fornirci altri preziosi dati, ma che necessitano di un lavoro di ricostruzione difficilissimo e delle quali vi offriremo l' anteprima assoluta!”
“Il lavoro è ancora lungo, ma la strada è ormai in discesa”.
Dalla platea si alza un fascio luminoso e la parola viene data ad un abitante di Uoailos-beta:“Perché il crono-documento risulta interrotto? Forse una parte è andata perduta? O qualche improvvisa tragedia ha impedito la registrazione dei fatti successivi? Che fine hanno fatto quelli che vengono chiamati i 4 alpinisti? Che senso aveva tutta la fatica di cui si facevano carico? Che senso aveva affrontare quei pericoli con quei mezzi così primitivi. Che logica c'era dietro la loro attività? Quali ricompense ottenevano per tutto ciò? Cosa li spingeva ad imprese apparentemente tanto inutili? Forse la gloria, l'autostima, la voglia di libertà, l'amicizia che li legava?”
Il professor Qwrestium guarda nell'occhio il curioso interlocutore e la sua risposta rimbomba chiara nella sala: “Non lo sapremo mai… ma non ci importa”.

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La prima volta
di Will

C'è sempre una prima volta. Anche quando uno crede di essere esentato all'improvviso la fatalità lo avvolge e lo include nel cerchio di quelli che hanno già provato questa grande emozione.
A me è capito molto presto. Ero li e non immaginavo che quel giorno sarebbe stato il mio turno. Era una giornata calda, una di quelle che appena metti i piedi fuori dalla porta inizi a sudare. Ero anche senz'acqua e in quel momento, quando è capitato, perdevo sudore come una vecchia fontana ricavata da un tronco d'albero. A Luca invece è capitato sabato. Non se l'aspettava ma sapeva che prima o poi sarebbe successo anche a lui. Certo ignorava il come, il dove e soprattutto il quando, ma era sicuro che nel club c'era un posto a lui riservato.
La giornata era bella e il vento che soffiava da ovest portava con se un'aria particolarmente fredda. Luca ignorava tutto, continuava a salire per lo spigolo come se niente fosse, si appiccicava alla parete come un piccolo ragno che percorre la sua ragnatela. Io, testimone dell'evento, potevo solo udire e capire ma non vedere. Tenevo le solite mezze corde con la consapevolezza che prima o poi anche lui sarebbe... volato. Non che gliel'augurassi s'intende...
All'improvviso ho sentito le corde tirare come non mai. La mia mente ha capito, la mia bocca ha iniziato a mormorare qualcosa, le mie orecchie hanno sentito un urlo provenire dal basso della parete...
Così anche lui ha provato a volare! La roccia l'ha tradito. Un appiglio, solleticato dal vento ha deciso di lasciare la grande pala del campanile Pradidali per diventare un piccolo sasso che, una volta caduto a terra avrebbe iniziato una nuova vita...

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El arca de los vientos
di Ermanno Salvaterra

Quella via la provai per la prima volta nel '92 con Guido Bonvicini e Adriano Cavallaro. Facemmo un primo tentativo in ottobre ed arrivammo ad un tiro dal diedro degli inglesi e rinunciammo perché la parete era carica di neve. In attesa che si pulisse scalammo la Franco-Argentina al Fitz e la via del compressore al Torre. A novembre abbiamo fatto un secondo tentativo ed abbiamo dormito nel box inglese alla base del loro diedro. Il giorno dopo il tempo era pessimo ed i miei soci volevano scendere. Io gli chiesi di lasciarmi qualche ora per salire un po'. Volevo arrivare al Colle della Conquista e ci riuscimmo. Ero curioso di vedere il posto. La bufera ci ricacciò indietro. Altri compagni, al momento di partire per quella storia si tirarono indietro ma io mai me la presi per la loro decisione, soprattutto per l'alone di mistero e pericolo che questa via aveva. Nel 1994 feci un altro tentativo con l'austriaco Tommy Bonapace, già esperto di quella via. Partimmo quel giorno dal campo base ed alla sera eravamo alla base del primo nevaio triangolare. Ci successero un po' di cose spiacevoli e dopo un bivacco penoso, al mattino, lui mi disse: "Finish Ermano, never more!" Intendeva che con quella via aveva definitivamente chiuso. Gli anni passavano ed ogni tanto quella via mi assillava. Per diversi anni difesi Maestri, Egger e Fava. Non lo difesi in un forum o con chiacchiere da "bar".
Lo difesi a spada tratta con il suo (mi perdoni il grande Ken Wilson) grande accusatore KEN WILSON della Rivista inglese "Mountain". Poi lentamente iniziai a cambiare idea. Rilessi e ristudiai quanto avevo detto e scritto a difesa di Cesare e cambiai idea. L'idea di quella via non era quindi mai morta. Lo scorso novembre tornai a casa dalla Patagonia e due mesi dopo ho compiuto cinquant'anni. Per la prima volta dovevo guardare in faccia anche la realtà del tempo che passava ma la voglia era ancora tanta.
A gennaio avevo praticamente deciso che sarei tornato là per provare quella salita. Verso fine inverno il mio amico Rolo Garibotti mi scrive con un progetto. Già da qualche anno mi chiede di andare insieme con lui in Patagonia ed io sempre rifiuto solamente perché è molto più giovane di me e molto più forte. Questa idea però mi alletta molto ma gli rispondo che prima vorrei provare quella "cosa", quella "via". All'inizio lui non è molto convinto ma poi accetta con entusiasmo. Ale è già d'accordo. Poi in estate le lunghe polemiche sui giornali.
Noi non siamo partiti per fare un'indagine ma per seguire quella linea. Gli austriaci Toni Ponholzer e compagni fino allo scorso gennaio hanno effettuato molti tentativi a quella parete e sono giunti a circa 200 metri dalla cima seguendo la parete est nella prima parte e poi direttamente sul diedro di destra della parete nord. Diedro seguito in parte anche da Giarolli-Orlandi. Inizialmente anche noi pensavamo di seguire quella linea ma l'insicurezza e la difficoltà di quell'itinerario ci ha spinti a cambiare obiettivo.
Le parole del Grande Bruno Detassis dicono di cercare il facile fra il difficile e questo è stato il nostro obiettivo. Arriviamo a El Chalten il 14 ottobre alle ore 17 e dopo 10 minuti ci incontriamo con Rolo. Il tempo è bello e così, già il giorno dopo alla sera siamo alla base del Torre. Siamo pronti per andare in parete ma il mattino seguente nevica e quindi torniamo al Chalten. Altre 3 volte ritorniamo alla base. Saliamo i primi 4 tiri e fissiamo tre corde. Una mattina, pronti a rimanere in parete, saliamo alla fine delle corde quando si mette di nuovo a nevicare. Non possiamo infilarci su questa parete con il maltempo. La quarta volta, di buon'ora lasciamo la truna e alle ore 17 siamo alla piccola spalla sopra il Colle. Scendiamo una breve corda doppia e saliamo sul versante ovest già seguito in precedenza da Orlandi-Giarolli-Ravizza. Dopo alcuni tiri ci fermiamo a bivaccare su un'ottima cengia. Il giorno seguente la parete si fa più ripida ma Rolo sale veloce anche se deve pulire le incrostazioni di neve per trovare le fessure. Arriviamo poi sul filo dello spigolo nord. Guardiamo oltre lo spigolo la parete nord e ci sembra fattibile.
La cima del Torre è circa 300 metri sopra di noi. La cima della Torre Egger proprio di fronte è appena 50 metri più alta di noi ed è bellissima e impressionante. Verso nord vediamo il Cerro San Lorenzo a più di 200 chilometri di distanza. Ci guardiamo attorno, guardiamo in alto cercando il posto per proseguire nella nostra salita, iniziamo a preparare un gradino sul quale sederci per passare la notte. Il tempo sta peggiorando. Nubi nere arrivano da ovest e forti raffiche di vento ci portano a fermarci ed a parlare. Cosa fare? Rimanere o scendere? Scendere o rimanere? Se rinunciamo sappiamo che ciò significa non ritornare più qui. Quando si fanno tentativi su queste montagne si possono salire due, tre o anche quattrocento metri e poi dover rinunciare per il maltempo ma quando si arriva molto in alto è difficile ritrovare le energie fisiche e soprattutto mentali per ricominciare tutto. Quando ormai sono le ore venti iniziamo a scendere con un nodo alla gola. Nevica intensamente ed il vento fa il resto. Le ultime due doppie per raggiungere la spalla sopra il Colle le facciamo lungo il ripidissimo spigolo nord. Superato il Colle che è già buio da molto, scendiamo ancora duecento metri e poi, anche perché un paio di frontali fanno i capricci e la discesa non è certo delle più elementari, decidiamo di fermarci per aspettare la luce del giorno. Sono le una di notte e siamo piuttosto stanchi. Siamo poco sotto l'inizio del diedro degli inglesi. Ci scaviamo un ripiano con i ramponi per rendere l¹attesa più comoda e per riscaldarci. Riusciamo a farci anche qualcosa da bere e da mangiare rendendoci l'attesa del giorno meno penosa. Alle ore 5.40 la discesa riprende. Siamo molto stanchi ed assonnati e cerchiamo di scendere tranquilli per non commettere imprudenze. Dopo altre quattro ore arriviamo alla truna. Ci sembra di essere al Grand Hotel. Il tempo non è poi così male ma sopra di noi sentiamo soffiare il vento.
Decidiamo di rimanere fino a domani prima di scendere al Chalten. Nel pomeriggio, verso le ore 15 un boato incredibile ci scuote. Urlo! Guardiamo in alto. Ale prende una pala e fugge all'interno della truna. Rolo, scalzo, si mette a correre in discesa sul ghiacciaio. Credo che si sposti più in basso per fare delle foto invece fugge pensando al peggio. Io, avendo già visto questo tipo di scarica su questa parete riesco a rimanere tranquillo e cerco la macchina fotografica e faccio qualche foto. Probabilmente un grosso fungo di ghiaccio si è staccato dalla parte sommitale e una grandiosa scarica sta scendendo dalla parete est del Torre avvolgendolo completamente.
Lo spettacolo è incredibile, impressionante e spaventoso. L'enorme nube bianca anziché scendere verticalmente a causa del forte vento comincia a traversare orizzontalmente verso sud e solo due piccole cascatelle di neve raggiungono la base.
Alle quattro, dopo i commenti sulla scarica vado a dormire. A mezzanotte Aleè sveglio e mi passa un pezzo di formaggio e qualche galletta. Poi mi alzo ed esco a fumare una sigaretta. Il cielo è azzurro e mi assale una tristezza incredibile. Piango e questo cielo azzurro mi ferisce a fondo. Abbiamo tolto tutto dalla parete e non ci resta che tornare a casa. Verso le due torno a dormire. Alle ore 6, quando ci svegliamo, propongo ai miei soci di ritentare. Qualche secondo di silenzio e poi l¹entusiasmo si riaccende.
Nevica mentre torniamo al Chalten e intanto facciamo il programma per la salita. Dobbiamo cercare di salire il più leggeri possibile. Lasceremo giù tutte le cose che ci sembrano superflue. Siamo molto stanchi e ci servirebbero alcuni giorni di riposo. Il 9 novembre, nel tardo pomeriggio siamo al Chalten. Il 10 il tempo è brutto e la cosa ci fa piacere. Siamo andati a dormire che il tempo era brutto e quindi ci siamo alzati con tutta calma. Il cielo sembra si schiarisca ed anche se avremmo fatto volentieri ancora un giorno di riposo, quasi controvoglia, decidiamo di partire. Alle ore 10.35 partiamo. Non parliamo molto durante il cammino ma le gambe rispondono bene ed in meno di 6 ore siamo alla truna. Subito ci prepariamo ed io e Rolo andiamo all¹attacco della parete e ne risaliamo i primi quattro tiri e come la volta precedente fissiamo le nostre 3 corde. Ale rimane a finire la nuova truna che per sicurezza abbiamo spostato sotto la Egger. In poco più di due ore siamo di ritorno alla "casa" e con Ale
terminiamo di fare il nostro buco più accogliente. Il nuovo posto della nostra villetta è veramente carino e molto più sicuro del precedente. Il tempo è fantastico e non c¹è un filo di vento e la carica in noi si sente e va aumentando.
La sveglia del vecchio suona alle ore 3.45. La colazione è ridicola, il
tempo è bellissimo e non bisogna perdere tempo. Alle ore 4.45, con le frontali sul casco, ci attacchiamo alle corde con le jumar. Facciamo altri due tiri e molto presto raggiungiamo il nevaio triangolare. Il sole ci riscalda già poco dopo le sei. Continuiamo veloci ripercorrendo metro su metro quanto salito pochi giorni fa. Rolo sale veloce sulle placche oltre il nevaio triangolare. Poi un tratto di neve, la facile rampa che porta verso il colle, un altro tiro di misto e alle ore 12 siamo già al Colle della Conquista. Di nuovo la breve calata e poi avanti sulla ovest che questa volta non dobbiamo pulire dalla neve. Incredibilmente alle ore 16.30 siamo al comodo terrazzino raggiunto la volta precedente in due giorni. Decidiamo che sarà il nostro posto per il bivacco. Una breve pausa e si riparte. Un breve traverso, una sottile fessura, un paio di difficili passi in placca.
La parete è ormai all'ombra ed il freddo alle mani si fa sentire. Poi Rolo continua su un altro tiro difficile e quindi ci troviamo a sistemare la cengia. Mentre Rolo e Ale sono impegnati sulla nord la ovest inizia a scaricare pezzi di funghi con neve e ghiaccio ma ormai siamo fuori pericolo. Il posto da bivacco è incredibilmente affascinante. Di fronte a noi la Egger, a destra il Fitz ed a sinistra lo Hielo Continental. Il freddo è abbastanza pungente ma il cielo incredibilmente stellato. La notte trascorre velocemente e riusciamo anche a dormire un po'.
E' il 13 novembre e mi sembra di essere il protagonista di un film, di un sogno.
Iniziamo i preparativi alle ore 6 e solo alle 8 riprendiamo la salita. Per fortuna, poco dopo, il sole inizia a riscaldare i nostri corpi infreddoliti. La parete è quasi verticale e molto difficile. Con altre due lunghezze su roccia e scalando fra le incrostazioni di ghiaccio riusciamo a saltare fuori dalla parete nord. Il posto è bellissimo. Quando raggiungo Rolo ci abbracciamo e siamo commossi. A fatica riusciamo a pronunciare qualche parola. Sotto di noi l¹impressionate parete nord non è più un problema. Con un altro tiro facile su ottimo ghiaccio raggiungiamo la Via dei Ragni di Lecco.
E' soltanto mezzogiorno e sopra i noi gigantesche strutture di ghiaccio
schiumoso ci preannunciano una difficile continuazione della salita. La Torre Egger è ormai molto sotto di noi ma la vetta del Torre ancora non si può vedere.
Iniziamo una serie di tiri molto impegnativi che a turno cerchiamo di salire. Il ghiaccio non ha consistenza ed a volte siamo obbligati a crearci un varco prima di trovare una certa consistenza della neve o del ghiaccio.
Abbiamo solo due fittoni e siccome i chiodi da ghiaccio non tengono le
protezioni sono quasi inesistenti. Noi non dobbiamo mollare. Costi quel che costi. Intanto il cielo si è coperto e comincia a nevicare e tirare anche un po' di vento. L'ultimo tiro lo facciamo a pezzi, salendone un po' ciascuno. Il freddo si fa pungente ma
alle ore 23.15 siamo sul punto più alto del Cerro Torre. "CUMBRE!" Ale mi ricorda che un anno fa, il 13 novembre raggiungevamo la stessa cima dopo la salita alla parete est. Momenti intensi d¹emozione ma  dopo qualche  foto scendiamo dal fungo e sotto un strapiombo ghiacciato ci sediamo per aspettare il passare della notte ed iniziare la discesa al mattino. Decidiamo di chiamare la nostra via
"El Arca de los Vientos" e la dedichiamo alla memoria di due cari nostri Amici, lo spagnolo Pepe Chaverri e l'argentino Teo Plaza. Questi due grandi uomini già nel 1994 sposavano lo stile alpino, facendo una grande salita sulla Standhardt. Purtroppo a distanza di breve tempo la bella e gioiosa vita di Teo fu interrotta da una
valanga. Qualche anno più tardi anche quella di Pepe fu smorzata in
montagna.

 

Il passero e l'avvoltoio
di Omar

Dopo, mi sveglio con un vago senso di delusione e di tristezza.
Mi capitava molto più spesso prima, soprattutto quando ero piccolo. Ora, forse, ho altri pensieri, altri problemi. Magari è lo stress, la tensione, il lavoro. Oppure, semplicemente, non sono più quello di una volta.
Dicono che sognare di volare sia segno di un animo libero, rilassato, in pace con il mondo.
Peccato che mi capiti molto raramente, ormai. Eppure a volte, ritorno a volare.
Mi sarebbe piaciuto volare, non solo nei sogni.
Ma non un voletto da passero, da pettirosso, non dei balzetti da codirosso né svolazzi da usignolo. Nulla a che vedere con i rapidi e futili voli da cinciallegra o da canarino.
Io vorrei volare come un corvo, un avvoltoio, un condor, come una poiana.
Non voglio saper cantare per commuovere chi mi ascolta, avere piume dai colori sgargianti per affascinare chi mi guarda, voglio solo saper volare magnificamente. Non voglio stancarmi in un frenetico sbatter d'ali. Voglio saper volare senza sforzo. Un battito d'ali ogni tanto e sfruttare le correnti, alzarmi ed abbassarmi a mio piacere annusando l'aria e seguendo il vento. Non voglio una rotta da seguire come le anatre o le rondini, obbligate ad un perpetuo migrare insoddisfatto. Voglio bearmi nel guardare la mia terra dall'alto, con ampi giri, sempre più distanti e tornare solo per il gusto di tornare, al centro del mio cielo.
Così vorrei volare, guardando tutto e tutti, ma non soffermandomi su nulla e nessuno.
E sotto di me voglio le montagne, i fiumi, i laghetti alpini, i ghiacciai, le pareti verticali, i prati secchi e gialli, i prati verdi e bagnati, i prati fioriti e caldi. Non voglio il mare né le spiagge sotto le mie ali, voglio la neve, le rocce, voglio il ghiaccio e gli abeti, i rododendri e le genziane. Voglio planare dolcemente, senza essere visto, senza rumore, se non quello del fruscio del vento tra le mie piume. Altissimo, oppure radente all'erba, sentirne il profumo, coglierne la rugiada, vedere i colori che sfrecciano veloci e non distinguere le forme.
Voglio giocare con le nuvole dense e bianche, con la nebbia grigia e fredda, rincorrere le marmotte spaventate e guardare le ragazze che prendono il sole.
Nei miei sogni volo e vedo la mia ombra che corre velocissima sulle cime degli alberi, sulle creste affilate, nei ghiaioni più severi, sulle acque più limpide, tra i silenzi più profondi.
Ma poi mi sveglio.
Con quel senso di delusione.

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Il vecchio
di Will

Era un po' di tempo che non andavo su quei pilastri ad arrampicare. Così ad occhio mi verrebbe da dire un paio d'anni. Eppure, quando il giorno di Pasqua sono passato davanti al cimitero, quell'uomo anziano, seduto sul piccolo muretto di cinta mi aveva rispolverato qualche piccolo ricordo. Mi ricordava qualcuno, forse un qualche vecchio rifugista incontrato anni fa quando, la mia attività di aspirante alpinista consisteva nel recarsi in qualche baita per una semplice abbuffata.
Non ho dato molta importanza ai ricordi e ai pensieri che in quel momento si divertivano con le mie cellule celebrali. Con me c'è Luca, solito e insostituibile compagno di cordata. Troviamo facilmente la Piramide di Cheope ma non altrettanto l'attacco. Siamo indecisi. Luca è la mente del gruppo, riflette e trova sempre le soluzioni. Io mi fido.
Saliamo questo Digiuno delle Galline e scendiamo nuovamente a valle, felici della nostra piccola ivagazione pasquale.
Mi tolgo tutta la ferramenta che ho addosso e sfrutto, come sempre, la piccola fontana del cimitero per rinfrescarmi e per levarmi di dosso la solita magnesite. Certo se ci fosse anche un po' di sapone... ma mi so accontentare...
Stiamo per risalire in macchina e quell'uomo, quel vecchio con la barba folta che, arrivando, aveva catturato il mio sguardo si dirige verso di noi. I miei pochi neuroni si rimettono in moto e ricomincio a pensare... sono troppo sicuro d'averlo già visto.
Intanto l'uomo s'è avvicinato a noi... ci guarda con occhi strani, occhi di chi di gente come noi ne ha vista a bizzeffe. Io ammutolito ascolto le poche parole che gli escono a fatica dalla bocca.
“Hai paura a salire vero?” Resto sbalordito. M'ha fregato. M'aspettavo una domanda sulla via percorsa oppure, da quanti anni arrampichi... o chissà che cosa... e invece questo vecchio mi chiede se ho paura ad arrampicare.
Guardo negli occhi Luca e subito ci capiamo. Sorridiamo ed entrambi pensiamo che abbiamo davanti un pazzo. Il vecchio riprende a parlare. Sembra che il peso della vecchiaia arresti le parole sulla punta della lingua. “Li ce la mia via. Quando morirò gli daranno il mio nome. Tu c'hai paura vero?”. Incuriosito dall'uomo che ho davanti decido di stare al gioco e gli chiedo dove sale la sua linea. “Quante volta l'ho percorsa... e si... la vedi? è li, li dove c'è l'albero!”. Mi volto e tento di cercare la sua linea di salita, ma onestamente vedo più alberi che pareti e mi convinco che ho proprio davanti il pazzo del paese. Stiamo per andarcene e riprende a parlare “Eccolo lì, lo sperone del Popo. Sicuramente c'è ancora quello spiazzo!” Mi blocco, m'arresto, e mi appresto nuovamente ad ascoltare guardando le cime dei pilastri sbucare dal verde. “Ci salivo con la fidanzata. Prima ci davo dentro e poi percorrevo la mia via”. Ora ho la convinzione che la persona che ho davanti ha veramente perso qualche rotella per strada. Educatamente lo saluto. Lui con una risata se ne va, felice d'aver parlato con qualcuno anche oggi. Si dirige verso il piccolo muretto e lì si siede aspettando il tramonto...
Mi volto ancora una volta... quello sguardo mi ha imprigionato... ci scambiamo qualche occhiata, i suoi occhi sono come il ghiaccio. Mi siedo in macchina e ci dirigiamo alla prima gelateria per gustarci un piacevole gelato.
Dopo una coda interminabile, arriviamo finalmente a casa. Raccatto tutta la mia mercanzia che è sparsa in ogni dove sulla macchina. Anche questa volta mi sono portato l'impossibile. Non riesco a tenere tutto tra le mani... ed ecco che mi cade la guida. Mi chino e la raccolgo. L'occhio destro nota che la guida si è aperta sui pilastri di Rogno. L'occhio sinistro legge “Sperone del Popo”. Raccolgo tutto e lascio passare la macchina che si è fermata per evitare d'investirmi. Ripenso al vecchio. Ripenso alla mia non curanza e, guardando le ultime luci della sera all'orizzonte, rivedo quel pazzo con gli occhi che brillano mentre parla con altri arrampicatori e condivide un pezzo di storia di quelle montagne.

 

E allora scrivo
di Omar

E allora scrivo di neve e di ghiaccio, di roccia e di prati.
Scrivo di fatica, di sudore, di caldo e di mosche.
Scrivo di freddo, di nebbia, di vento e di brividi.
Scrivo di passioni, di privazioni, di dolore e di levatacce.
Di grida di rabbia, di grida di dolore e di sfogo e di gioia.
Di mani graffiate, di piedi stretti e indolenziti, di muscoli tesi e muscoli doloranti.
Scrivo di corde che non scorrono, di nodi che non riescono, di moschettoni che non si aprono e di caschi che scottano.
Scrivo di ginocchia piegate nella neve, di teste appoggiate su piccozze e di polmoni che scoppiano assieme al cuore.
E di mani che non senti più, di nasi che gocciolano e di polpacci che bruciano.
Scrivo del sole che picchia duro e di burro cacao, di crema solare che cola negli occhi e di borracce sempre vuote.
Scrivo di appigli che non reggono e di scarpette di cui devo fidarmi.
Scrivo di mal di testa e di nausea, di russate nei cameroni dei rifugi e di colazioni alle 3 del mattino.
E penso a croci sempre troppo lontane, a discese interminabili e colonne infinite sulla strada di ritorno con qualcuno che dorme, qualcuno che ascolta musica, qualcuno che pensa alla morosa e a quel poveretto che guida.
E scrivo di cieli azzurri, di cieli blu, di cieli grigi e di cieli neri e anche di cieli che non si vedono perché stanno in fondo al cuore.
Scrivo di ramponi da legare, di imbrachi da stringere, di chiodi da piantare e di clessidre da cercare.
Scrivo di corvi bassi, di marmotte che fischiano e si nascondono, di sassi che rotolano e di acqua che solo a vederla ti fa rinascere.
Guardo la mia caviglia e leggo. Leggo perché adesso è la sola cosa che posso fare.
Leggo di cime raggiunte e di sogni realizzati, di visioni nella nebbia e di leggende mai sentite.
Leggo di salvataggi tra amici e di bugie troppo grosse che prima o poi vengono a galla, ma si resta amici.
Di ragazze che si incontrano tra i monti e di fotografie che si trovano sotto i massi.
Leggo di supereroi senza volto e di super stronzate senza tempo.
Leggo di attese e di ritorni e penso alle mie attese e ai miei ritorni.
Leggo di cadute e di voli tra le rocce e sul ghiaccio e di voglia di lasciarsi andare per sempre, lì tra le montagne.
E di coraggio.
Di gatti alpinisti e di cimiteri abbandonati.
Di deliri e di gelati.
Di zaini abbandonati e di stelle cadenti che non arrivano,
Di monti addormentati e di camminate in solitaria e di cani abbandonati e di salite mai realizzate.
Di vecchi forse pazzi e di pazzi ancora giovani, che forse un poco si senton soli.
Leggo di maledizioni e amicizia, di futuro e di passato.
Guardo la mia caviglia e scrivo, perché anche quello posso fare.
Scrivo di pareti senza un inizio né una fine, di lunghezze esagerate e di calate mozzafiato.
Di fiori aggrappati alla vita su una roccia troppo dura e troppo fredda.
Di fulmini e di capelli che si rizzano.
Scrivo di chi barcolla ma non molla e di chi azzera e lo dice senza vergogna.
Scrivo di chi sale il sesto senza problemi e di chi fa il terzo. Di chi ce la fa e di chi no, ma ci mette l'anima.
E anche di chi non salirà mai.
Scrivo di noi che ci vogliamo bene e di te che ci vuoi bene ma non lo dici mai.
E scrivo della paura e della morte, di cascate e di elicotteri che non vorresti vedere mai più.
Di chi non c'è più ma, chissà perché, sembra ancora legato alla tua corda, davanti a te.
Allora continuo a scrivere di mani tese che ti aiutano a salire e di monti che ti aiutano a vivere e a sognare.

 

Bertoldo ed il Sasso Errante
di Nuvolarossa

Come di routine io e Matteo ci troviamo per l'ennesimo week-end di questa estate a girovagare per le pareti dolomitiche…
E' il 26 agosto 2007. Le ore passano velocemente col susseguirsi delle varie lunghezze di corda. Ci troviamo sulla via Tanesini alla Torre Fiechtl, nel gruppo del Sella. Una torre probabilmente poco conosciuta, situata più a sinistra delle invece rinomatissime Torri del Sella.
La giornata fino ad ora è trascorsa felicemente come tantissime altre giornate passate quassù, salendo tra placche, diedri e muri verticali delle bellissime pareti dolomitiche.
Ma oggi non è ancora detta l'ultima parola, il destino ci serba una sorpresa prima di poterci stringere felicemente la mano al termine dell'impresa.
Il Bertoldo sull'ultimo tiro ha pensato bene di insultare un Sasso Errante. Tale Sasso, offeso per l'arroganza dell'arrampicatore, ha pensato bene di lasciarsi cadere verso valle proprio nel momento in cui il maleducato passante appoggiava il piede su di lui. Fu così, che quasi per magia, il nostro climber si trovò a volteggiare leggero nell'aria. Quasi avesse trovato una nuova aspirazione sportiva si dilettò in un paio di volteggi e, per prendere più velocità, pensò bene di mettersi anche a testa in giù.
Ma, aimè, si era dimenticato di avere ancora il cordone ombelicale...
E fu così che un chiodo, qualche metro di corda, un mezzo barcaiolo ed una mano pronta gli fecero smettere di sognare...
Il breve sogno era già finito ed il duro impatto con la realtà (o roccia che dir si voglia) non si fece attendere mettendo fuori uso il Bertoldo. Il nostro Sasso Errante si era degnamente vendicato e rideva soddisfatto qualche centinaio di metri più a valle. Fu allora che il Bertoldo, sentite le patetiche sghignazzate, volle dimostrare di essere più duro della roccia che si era presa gioco di lui e lo aveva colpito.
Si mise nuovamente in posizione verticale, appoggiò le quattro zampe sulla parete e raggiunse la vicina vetta, tutto intero, non completamente sano, ma comunque trionfante...

 

Mani Rosse
di Omar

La domanda è sempre quella: “Sei stato in montagna? Dove?”
Anche la prima parte della risposta è sempre quella : “Sì”.
Cambia la seconda, ma non è importante. Tanto lo sguardo è sufficiente a farmi capire che lui, come al solito, non ha capito e allora lo ripeto ad alta voce.
Scrollando il testone mi risponde che non sa dove si trovi quel posto lì. Lui andava sempre in Valbondione oppure in alta Valbrembana.
Ci andava in bicicletta, con suo padre.
Da giovane ferrava i cavalli e alcuni suoi clienti abitavano lassù. Va da sé che doveva andarci. E gli piaceva. Non so se gli piaceva di più ferrare cavalli o stare con suo padre.
Lui è mio nonno. Quando ero bambino, durante le vacanze estive, andavamo a cercar mirtilli e resina d'abete nei boschi sopra Piazzatorre. Passavamo intere giornate assieme. A lui chiedo scusa per tutte le volte che non capisco che le sue domande sono solo un pretesto per scambiare due parole. Ma nella mia stupida fretta quotidiana, nella mia egoistica stanchezza da dopo camminata, preferisco dare due risposte veloci e ficcarmi sotto una doccia calda.
Con il mio di padre, invece, non ho mai parlato tanto. Lui ha fatto l'alpino. Ho una sua foto a casa, dove lo guardo marciare immerso nella neve, serio e carico come un mulo. Tra noi ciò che non fanno le parole lo fanno gli sguardi e i silenzi. O le frasi al contrario.
“Mi raccomando… non stare attento…” Ovviamente detto velocemente, di fretta, quasi distrattamente ed in bergamasco, perché così pare più distaccato, più tra uomini, meno paterno. Lo dice quando mi carico lo zaino sulla schiena oppure mentre apro la porta di casa per uscire. Normalmente rispondo “Va beneee…”, quasi offeso e me ne vado. Contento che anche stavolta abbiamo fatto la nostra scenetta dei finti uomini duri.
A lui chiedo scusa, per non essermi mai fermato su quella porta e non essermi mai girato per dire anche solo “Tranquillo non mi ficco nei casini. Ci vediamo questa sera…”.
“Vai da solo ?”. “No, con il Guglielmo”. Balla clamorosa, il Guglielmo sarà da qualche parte con la morosa…Però almeno mia nonna è un poco più tranquilla. Mia nonna è stata catturata e fatta prigioniera dai tedeschi durante la guerra. Mi racconta spesso delle sofferenze e degli orrori che ha visto. Di quei periodi le è rimasta la tristezza negli occhi, sempre velati e pronti alle lacrime. Ti chiedo scusa per l'ennesima bugia, per l'ennesima falsità a fin di bene.
Sono freddi gli occhi di mia madre. Forse non sono nemmeno più gli occhi di una madre. Mi guardava triste quando me ne partivo per qualche giorno lontano, nel bel silenzio delle mie montagne. Mi guardava e mi salutava come se fosse stata l'ultima volta. Ma le cose cambiano. Non è vero che il tempo cura tutte le ferite. Non è vero che il tempo deve fare il suo corso e che le cose prima o poi si sistemano. Ora, a volte, non mi guarda nemmeno. E me ne parto, più solo di come vorrei essere.
Ed allora, amore mio, ripenso alle tue mani rosse di freddo, perse nella nebbia di una montagna di cui non ricordo il nome e nemmeno i colori. Perché a te la montagna non piace, preferisci il mare, l'ho capito fin da quando ti ho visto per la prima volta, una sera di settembre che tirava un vento profumato di uva matura e foglie gialle. Ma a volte fai finta e mi fai felice. Ti chiedo scusa per quelle volte che ti ho lasciata sola ad aspettare una telefonata “Pronto? Ciao, sono tornato. Sì…tutto bene. Ci vediamo stasera.”. Per quelle volte che non ti ho detto che mi sei mancata.

“Che ti move, o omo, ad abbandonare le proprie tue città, a lasciare parenti e amici, ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo?” L. Da Vinci

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Solitudine by Night
di Will

Eccomi qui a batter tasti. Eccomi qui davanti ad un pc. Semplicemente eccomi qui.
Dopo che qualche giorno fa, Giacomo mi aveva emozionato con la sua salita notturna alla Grigna era nato dentro di me il desiderio di salire la Cresta Segantini con gli ultimi raggi di sole e arrivare in vetta con il buio. Andrea e Monica, miei compagni notturni però preferivano qualcosa di meno impegnativo. La scelta cade allora su di un posto un poco dimenticato, ma alpinisticamente significativo.
Alla Rocca di Baiedo don Agostino Butturini con il suo gruppo Condor ha aperto vie d'arrampicata non troppo difficili. La più famosa è Solitudine. La via fa per noi, 6-7 brevi lunghezze e un 'comodo' sentiero di discesa. Si parte. Raggiungiamo l'abitato di Baiedo in motorino perché certi dell'intenso traffico che percorre la strada Briantea.
I rovi che coprono il sentiero d'accesso ci danno idea di un qualcosa di dimenticato. Stupendo! In un batter d'occhio siamo all'attacco della via. Con noi per la prima volta c'è una telecamera. Io salgo le prime 3 lunghezze, Andrea chiude la via. Siamo nel boschetto sommitale quando il buio ormai avvolge tutto.
Inizia la discesa. Inizia una traccia che via via si perde. Capiamo di essere fuori strada, ma un debole sentierino ci invita a continuare. E proseguiamo. Davanti ci sono io che cerco di procedere lentamente per essere sicuro di non cadere. La mia prudenza evidentemente non è sufficiente e inizio a scivolare lungo il ripido bosco. Inizio vorticosamente ad afferrare tutto quello che mi passa sotto le mani. Niente da fare. Tutto si muove. Io cado. Io perdo metri. Mentre sento urlare di disperazione i miei amici mi ritrovo su di un salto. Sento il vuoto. Cado pochi metri. Batto in più punti la testa. Non mi fermo. Continuo a scivolare. Sotto di me la statale. Sbatto ovunque. Pensieri di una fine imminente sono ormai una certezza. Sento di non aver chiuso i conti con questa vita. Sento di non aver salutato. Sento di non aver saldato vecchie ferite. Poi un colpo secco. Un albero stoppa la mia caduta. Sento dolore alla testa. Sento dolore ovunque. Provo a muovermi. Mi lascio andare, sapendo che l'enorme tronco non mi sputerà via. Prendo fiato. Perdo sangue dal naso e dalla testa. Le mani mi fanno male. Le urla di disperazione riecheggiano nel bosco. La frontale s'è persa durante la caduta. Avviso i miei amici che sto bene (?). Loro decidono di raggiungermi. Da questo tronco riusciamo a scendere in doppia. Con una calata di 30 metri esatti i miei amici sono da me. Ma nel frattempo un paio di abitanti del paese, preoccupati dalla luce della frontale che avanzava nel bosco ci hanno raggiunto. Mi aiutano a scendere sulla strada.
Scosso. Consumato dai pensieri. Certo di essere vivo. Mangio la pasta fredda che Monica aveva preparato. Guardo nei loro occhi e capisco la paura che tutti abbiamo avuto. Un freddo intenso accompagna la nostra discesa in moto sino a casa. Raggiungo il letto. Mi sdraio. Sono pieno di dolori. Ripenso alla giornata. Rivedo la mia vita.
M'addormento.

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Un nuovo mattino
di Paolo Grisa

«Riallacciare i contatti con la natura, e come amici prendersi per mano, e scoprire noi stessi, e finalmente comunicare. E percepire non solo il tipo di realtà che ci viene sottoposta quotidianamente, bensì le diverse realtà di cui è composta l'esistenza. Non è cosa difficile comprendere, osservando le mutazioni delle stagioni, come esse abbiano una similitudine con la nostra vita» (I. Guerini)
Ebbene si... è davvero possibile, contro ogni previsione, trasformare un triste e grigio pomeriggio quasi autunnale di temporali vaganti su tutta la pianura e sulle prealpi in un frizzante e spensierato NUOVO MATTINO verticale su un meraviglioso sipario (si, un SIPARIO color OCRA) incastonato a fianco di quella che Guerini chiamava la COSTIERA D'AVORIO... proprio qui due fessure di meravigliosa regolarità ti sparano verso l'alto in una lotta contro la gravità che si risolve sempre felicemente per chi ha la pazienza di cercare SENZA L'USO DI TRUCCHI la soluzione nascosta...
La roccia APPARENTEMENTE nemica all'inizio premia in realtà colui che andando al di là della superficie delle cose prosegue nella sua esplorazione verso l'ALTO...
MANOBONG e FESSURIANI... due lineari crepe tanto affascinanti quanto repulsive dalle quali... chi avrà la curiosità (o l'energia...) di fermarsi ad ascoltare godrà del privilegio di udire uscire dalle loro fenditure il suono rieccheggiante di un sogno (o un utopia?) che si chiamò... alla fine degli anni'70 ARRAMPICATA LIBERA... (ma libera davvero!) e che rimase, invece, vittima di sè stesso, finchè quel "libera" (che significava in realtà molto più di quello che in seguito si sarebbe voluto far credere) si sarebbe trasformato in SPORTIVA ribaltando completamente i suoi ideali...
Tentennare sulla scelta del sentiero,
seguire con lo sguardo la linea e chiedersi come sarà trovarcisi sopra, respirare profondamente prima di compiere il primo passo verso l'alto, espirando fuori tutte le preoccupazioni, gioire per la scoperta di una protezione, vergognarsi rinviando uno spit non certo frutto del "SOGNO ORIGINALE", sorprendersi della inaspettata generosità della roccia proprio in quel punto che, da sotto, sembrava più minaccioso, terminare una via sotto uno scroscio rinfrescante che, più che rovinare sembra voler essere partecipe anch'esso della gioia del momento...
Grazie a Matteo e Fede che, in due diversi momenti, mi sono stati compagni di questi piccoli viaggi fuori dai tempi e fuori da quei gradi così volgari nella loro freddezza... viaggi nei quali, l'arrampicata, ne è stata si una componente, ma non certo la più importante.

 

Il Sasso Errante
di Omar

Sono tra i monti. Ci sono sempre stato. Da migliaia di anni. E chissà per quanto tempo rimarrò qui: a scaldarmi al primo sole del mattino e a rabbrividire al primo freddo della sera. Mi lascerò bagnare dalla pioggia scrosciante dell'estate che mi scorre sopra veloce e che, lentamente, mi addolcisce i lineamenti e li rende meno ruvidi e spigolosi. Mi farò coprire, come sempre, dall'ultima neve di marzo, sorridendo al pensiero che di lì a poco sarò circondato da fiori e profumi che mi addolciranno il cuore, duro come pietra.
A volte sogno il mare, lontano anni luce da qui. Mi immagino sulla spiaggia a farmi accarezzare dalle onde che con il loro monotono andare e venire mi fanno addormentare. Ed i pesci che mi vengono a trovare. I bambini che mi nuotano attorno e che ridono. Le ragazze con i seni al vento e l'odore della crema solare. Mi godrò i tramonti arroventati e il volo dei gabbiani. Mi lascerò sporcare dalle alghe e perfino i granchi mi cammineranno sopra. Forse un giorno ci arriverò, chissà quando, chissà come. Attraverso un fiume ci arriverò.
Ed allora mi mancheranno i miei silenzi, mi mancherà anche il ghiaccio che mi copre ed il vento che non mi lascia dormire. Mi ricorderò degli animali al pascolo ed il suono dei loro campanacci al collo. Delle vipere che si addormentano sopra di me, al caldo del mio corpo.
Se solo fossi un poco più in alto, qualche metro. O un poco più in basso. Allora vedrei il mare, laggiù, tra quelle due montagne lontane. Ho sentito dire da qualcuno di passaggio che da lì si vede il mare.
Ma da dove sono io vedo solo nuvole, prati e cielo azzurro.
Io lo so perché vorrei andarmene da qui, da dove sono sempre stato.
Per averne nostalgia e tornare.

 

Aria Frizzantina
di Will

Potrei iniziare col dire che c'erano un fotografo, un infermiere e un ingegnere. Potrei continuare nel dire che c'era anche Tiziana. Volendo potrei persino aggiungere che il sole splendeva alto nel cielo.
Potrei... ma non lo faccio.

Il risultato sarebbe un tema descrittivo della giornata. Delle righe che verrebbero lette con la stessa velocità con cui verrebbero dimenticate.
Provate ad immaginare un teatro. Sipario rosso che si apre lentamente. Luci che si fondono con i vestiti colorati degli attori. Provate ancora ad immaginare di essere l'unico spettatore di quell'unica rappresentazione. Provate ad immaginare l'infinito e provate ad immaginare la piccolezza.
Ieri il sole illuminava un teatro che nonostante sia a pochi passi da casa visito molto poco. Non perché il biglietto d'ingresso costi troppo, ma perché scelgo altri spettacoli. Ci sono poi quattro attori che si muovono in un palco enorme che è l'alta Val Seriana.
Io sono lo spettatore che anziché star seduto in platea inizia a muoversi in questa incredibile rappresentazione reale.
Ci sono silenzi e ci sono le voci. Le loro di voci.
Questa domenica è proprio diversa dalle altre. Non ci sono corde, non ci sono moschettoni. C'è solo il silenzio interrotto quasi esclusivamente dal loro vociare.
Ascolto tante storie. Storie di vita quotidiana. Storie di soccorso alpino.
Ogni istante della loro vita è legato a questa attività che rappresenta per loro una forma di devozione. Ascolto ammirando lo spirito con cui indossano quei vestiti. Ascolto le loro energie. Ascolto la forza d'animo con cui si salva una vita o si recupera un morto.
Cerco di far mio tutto questo. Cerco d'imparare e di crescere.

 

 

Ebano
di Will

Il tempo scivola via dalle mani.
Sembrava ieri, il primo giorno delle superiori e un mondo nuovo che si apriva. Da allora ad oggi son passati molti anni. Eppure... non riesco a rendermene conto!
Nel gennaio 2004 mettevo per la prima volta dei vestiti dentro un grande zaino, trasformando quello spazio, non poi così grande, nella mia piccola casa per circa un mese. Il viaggio in Messico aveva dato inizio a qualcosa di veramente importante.
Nei viaggi che si sono susseguiti, l'alpinismo ha trovato il suo spazio. Tutto si è fuso insieme. Tutto è stato unico ogni volta. Mentre toccavo la sabbia di tanti stati ho saputo ridere e al tempo stesso piangere.
Il "dolcemente viaggiare" direbbe Lucio Battisti quel "...rallentare per poi accelerare..." che mi ha permesso di assaporare tutto l'assaporabile.
Tra qualche giorno sarà Natale. Mentre la maggior parte di voi sarà davanti ad una tavola imbandita io starò volando sopra le vostre teste.
Un nuovo viaggio, una nuova avventura.
Il Kenya, con il suo Monte Kenya saranno le nostre destinazioni. Uno stato e una vetta (in realtà le vette son 3). Lo spirito con cui affronterò questa avventura è lo stesso delle altre volte o forse superiore...
E potresti ripartire,
certamente non volare, ma viaggiare! “

 

Valerio Fontana
di Will e Paolo Grisa

Il paese di Ravascletto, era forse sconosciuto ai più finché non è salito alle cronache perché i tornanti che portano alle sue case e ai suoi albergo hanno fatto, negli scorsi anni, da antipasto al terribile Zoncolan, la più ripida rampa sulla quale gli ultimi Giri d'Italia sono transitati.
Conosco Ravascletto per averci passato alcuni giorni in villeggiatura, ma gli sono emotivamente legato, alcune mie lontane radici vengono da lì, e vi abitano ancora dei parenti.
Perché altrimenti andare in vacanza proprio su quelle montagne lì, dove, per dirla “alla Mauro Corona”, non “nevica firmato”?
Oltre agli alberghi a Ravascletto si trova anche un campeggio, il suo proprietario è una guida alpina, il cui nome è Sergio De Infanti. Sergio fa forse parte di quella ristretta cerchia di alpinisti tolmezzini il cui nome ha varcato le soglie delle loro discrete montagne. D'altra parte le sue imprese si sono spinte dalla Cordillera di Huayhuash in Sudamerica fino all'Everest.
Tra le sue esperienze in montagna però, una in particolare, nella sua tragicità Sergio probabilmente non riuscirà mai a dimenticare: il tentativo, nel '70, alla parete Nord dell'Eiger, la montagna delle tragedie per eccellenza. In cima a quella stessa montagna, nel gennaio del '90, un altro Sergio, a noi bergamaschi più noto e mai dimenticato, bivaccherà con il fratello Marco al termine di una straordinaria ascensione invernale della parete.
De Infanti a quel tempo era giovane: 26 anni ma già aveva un notevole curriculum, il suo compagno, Angelo Ursella , di anni ne aveva appena 23, ed era un po' la promessa dell'alpinismo friulano, dunque questo deve avergli reso ancor più difficile accettarne la morte...
Nel luglio del 1969 compare sulla "Rivista Mensile del CAI" una lettera-appello a firma del socio Angelo Ursella: ventiduenne, friulano di Buia, alla spasmodica ricerca di amici e compagni di cordata. L'intervento suscita reazioni disparate.
Alcuni alpinisti solitari raccontando delle loro salite, della decisione di affrontare determinati itinerari da soli quasi come di una scelta mistica, una chiamata, non come qualcosa dettato dalla necessità ovvero l'assenza di un compagno. Io non ci ho mai creduto.
I pochi itinerari che ho percorso in solitaria nascono dalla difficoltà nel trovare compagni motivati all'andare su percorsi che magari su di te esercitano un fascino misterioso ai quali altri arrampicatori sembrano essere immuni...
Ursella a vent'anni ha già un curriculum di solitarie impressionanti, ma non scalava da solo per scelta bensì per mancanza di compagni di cordata. Così il suo gesto, in quel luglio del '69, di pubblicare la lista delle sue ascensioni sulla Rivista Mensile del Cai fu visto da molti come un atto di superbia, in realtà era solo il gesto disperato di un giovane al quale la passione dell'alpinismo bruciava nel profondo...
LA VIA...
Leggere casualmente un libro ed innamorarsi di una via d'arrampicata.
Leggere passo passo le emozioni dell'apritore e iniziare ad adocchiare la relazione.
Scoprire che nel frattempo qualcun'altro ha realizzato il tuo sogno.
Buttare l'idea a qualche amico sulla possibilità di compiere quella salita ma senza mai arrivare ad un dunque... finché qualcun'altro, all'improvviso e a ciel sereno, ti offre la possibilità di realizzare il tuo sogno.
L'idea di affrontare questa salita in artificiale è nata circa due anni fa con Luca (Galbiati n.d.r.) quando all'attacco della Loss/Pilati (una via d'arrampicata che sale quasi in centro alla parete del Piccolo Dain e che attacca a pochi metri dalla via di Angelo Ursella) adocchiammo dei chiodi lungo quell'esile fessura che sale verso il cielo. Il dietro-front dalla Loss quel giorno fu proclamato prima della fine del secondo tiro per le alte difficoltà. Qualche mese dopo eravamo nuovamente all'attacco (sempre per ritentare la Loss) ma anche questa volta fummo costretti a rinunciare per via del maltempo.
Il giorno di pasquetta del 2009… il conto aperto con la Loss si chiude. Il sogno di Luca era finalmente realizzato. Intanto i chiodi della Valerio Fontana continuavano a guardarmi.
Pochi giorni dopo, Luigi (Baratelli n.d.r.) al telefono mi parla della via di Ursella... e decidiamo di affrontare la salita il giorno successivo. Tra una variazione e l'altra finisco a cavalcare il mio sogno con Paolo (Grisa n.d.r.).

Un invito dell'ultimo minuto a una festa che non ti saresti mai aspettato così bella. Questo è stata per me la salita della V. Fontana. Un ospite mi sono sentito. Vedere la passione con cui Matteo mi leggeva il racconto della prima salita di Angelo Ursella, che questo ragazzo compie quando ha poco più che la mia età, mi ha messo a disagio. Ne ho letti moltissimi di libri di montagna ma il libro su “il ragazzo di Buia” non mi era ancora capitato fra le mani. L'essermi aggregato per la salita solo all'ultimo momento della sera prima di partire, senza neanche sapere che via fosse quella in programma, ma semplicemente ubbidendo al consiglio di “portare staffe, martello e chiodi” mi ha fatto sentire come qualcuno che sente di aver vissuto una così bella occasione senza essersi preparato abbastanza per poterla meritare.

Il primo tiro m'impegna a lungo. Sono 40 metri di A1/A2 ma qualche chiodo mancante e qualche appiglio usa e getta (sulla testa di Paolo per la precisione) m'impegna per circa 2 ore.
Paolo è decisamente più veloce di me, in virtù del fatto che nutre un po' più fiducia nei vecchi chiodi e così guida lui il mio sogno verso la realtà. Al termine delle difficoltà siamo stanchi ma contenti e qualche piccola distrazione provoca il cedimento di una lama fuori via che finisce a valle. Fortunatamente non c'è più nessuno in giro. Terminiamo la via alle 17.22 e percorrendo le ultime lunghezze di Amelie raggiungiamo facilmente il sentiero di discesa. Torniamo a valle stanchi morti. Torniamo a valle felici.

Ora però qualcosa conosco di Ursella, conosco il grande senso estetico che indubbiamente aveva e che la dirittura di questa linea dimostra, il suo straordinario occhio che gli permise di individuare la linea di fessure che io, finché non mi sono trovato sopra, non riuscivo nemmeno a ipotizzare, conosco la sua capacità di chiodare in posizioni assurde mettendo dei chiodi che a me riusciva a malapena di afferrare in punta di piedi sull'ultimo gradino della staffa e con il rinvio pronto nella mano...

Nessuno di noi aveva una macchina fotografica. Nessuno di noi ha impresso l'esile fessura che sale verso la vetta. Nessuno di noi ha fotografato le emozioni. Come testimonianza della salita resta un vecchio chiodo di Ursella uscito nella seconda metà della via. Un chiodo particolare che non si trova di certo in commercio.
Grazie a Paolo per essermi stato compagno di questa strepitosa giornata.
Grazie a Luca (che nel frattempo saliva il Missile con Claudia) per aver accettato che affrontassi la salita con Paolo (torneremo certamente... basta solo scegliere la data).
Grazie a Claudia per averci offerto asilo notturno in quel di Trento.
Grazie ad Angelo Ursella, ragazzo di 23 anni, morto sull'Eiger per aver disegnato questa linea tanto logica quanto estetica ed elettrizzante.

 

Riflessioni
di Nuvolarossa

Non ricordo bene, ma era già settembre avanzato in quel lontano 2001.
Quello che ricordo bene è perché mi trovavo lì…
I Sass Balòss erano nati da poco e l'attività escursionistica di gruppo era ancora una cosa rara, aumenterà nei mesi a venire.
Il duemilaeuno per me e Matteo fu l'anno del giro delle Orobie.
Armati di tenda, fornellino, pasta e barattolo (ovviamente in vetro) con il sugo della nonna passammo alcuni giorni a girovagare per le montagne. Giunti all'Albani rientrammo in macchina con il papà del Matteo, ma, a pensarci bene, avremmo potuto allungare la permanenza per una notte e partecipare all'allora mitica festa della luna…
Beh, altri tempi!
L'estate passa. Arriva settembre, ed il periodo utile per completare il tagliandino del girarifugi con i timbri sta per scadere.
Ci mancano ancora due sole casette e poi sarà completo.
E' così che finiamo in valle per apporre due timbri da una casetta ciascuno.
Passeggiando verso il rifugio dopo poco mi giro e mi accorgo di essere rimasto solo.
Omar e Matteo sono ancora fermi poco dopo la macchina. Li vedo gesticolare verso quelle pareti spoglie di alberi che hanno di fronte. Ma che ci sarà? Cosa avranno visto? Qualche animale???
No, stanno guardando dei pipottini colorati persi in quel mare di granito - mah, roba da pazzi o, per essere buoni, superdotati - penso! Finalmente andiamo ad apporre i timbrini che tanto mi interessavano.
Dopo 2 anni i casi della vita mi portano a fare il corso di roccia. Non che mi interessi, ma sarei l'unico Sass Baloss a non farlo, quindi mi adeguo.
Scopro una nuova dimensione ed i miei pensieri vanno subito a qui pipottini colorati visti 2 anni prima.
So che lì è difficile, ne ho sentito parlare, ma l'attrazione inizia…
Passano gli anni e finalmente mi sento pronto. Chiamo Paolino –allora andiamo ? – gli chiedo.
- Ok- mi dice. Purtroppo la sera prima di partire salta tutto.
Passa un altro anno. Questa volta si aggiunge anche Matteo. Stiamo salendo all'attacco della via e già l'avvicinamento non si mostra per nulla banale. Finalmente ci siamo. Sono giunte altre due cordate con lo stesso obiettivo. Nel massimo silenzio iniziamo a prepararci, si parte.
Arrivano altre due cordate, per fortuna una cambia via. Dopo il primo tiro di riscaldamento le cose si fanno più serie. Un susseguirsi di fessure stupende ci portano alla base del temuto tiro chiave.
Ok, un po' di fatica ma è passato. Adesso, dal pulpito, è facile e veloce arrivare in cima ad una delle strutture più famose della valle. In breve stiamo calpestando l'erba sommitale sulla quale si sono consumate delle alquanto stravaganti cene a base di pesce.
Avevo atteso per anni questo momento. Una via mitica nella mitica la Val di Mello sia per le sue difficoltà che per i retroscena dell'apertura. Ed ora che sono in cima al Precipizio degli Asteroidi non sto provando quelle sensazioni che dovrei… sento solo di aver aggiunto una via al mio misero curriculum.
La Tromba, il Pulito dell'Eremita, l'alone del mito che circonda Oceano Irrazionale…
Forse avrei dovuto continuare a sognare, osservando tutto questo dal basso, senza diventare uno di quei pipottini colorati.

 

 

Vittima o carnefice?
di Omar

Il rumore di zoccoli che corrono mi distrae momentaneamente dalla mia avventurosa e appassionata attività di oggi: raccogliere castagne…
Alzo la testa, guardo in direzione del calpestio e faccio appena in tempo a scorgere le chiappe di due caprioli che, con la codina alzata, velocemente scendono il ripidissimo fianco del fitto bosco in cui mi trovo. Un paio di secondi e tutto sparisce, solo, lontano, sento ancora i due che corrono, poi più nulla, di nuovo silenzio.
Torno alle mie castagne.
Pochi secondi dopo un nuovo rumore, diverso questa volta, come di cespugli e fogliame che si muovono al passaggiodi qualche cosa. Cosa? Di nuovo simpatici caprioli? Una curiosa volpe? Un paffuto tasso? Col cavolo! Si tratta di un enorme cinghiale che mi guarda, inizia a soffiare e grugnire, emettendo un verso che fa venire la pelle d'oca. In un attimo ripenso alle frasi di mio papà che mi dice “occhio ai cinghiali perché sono pericolosi: ti caricano, ti vengono addosso e possono anche spaccarti le gambe se ti prendono durante la loro furiosa corsa. Con le zanne poi…”. Con le zanne poi cosa? Perché non l'ho ascoltato?
Prendo un grosso ramo secco che trovo nelle vicinanze e lo stringo forte per darmi coraggio; lo batto sul terreno per saggiarne la robustezza e miseramente si spezza in due…'fanculo. Ne raccolgo un altro che pare essere più robusto.
Cerco di stare calmo, ma quello si nasconde di nuovo tra i rovi, soffia e pare proprio incazzato. Non riesco più a vederlo, ma lo sento e vedo i cespugli che al suo passaggio si agitano. Di colpo un altro rumore nella direzione opposta: mi volto e vedo altri due cinghiali, più piccoli ma ugualmente brutti e poco amichevoli. Raccolgo un grosso sasso e lo scaglio nella loro direzione. Fortunatamente scappano verso il basso con quella loro corsa fatta di passi brevi e veloci, travolgendo tutto quello che incontrano: rami, spini, cespugli.
Quello grosso è ancora lì. Non lo vedo ma lo sento e vedo gli effetti dei suoi spostamenti tra le spine. Se ha funzionato con quei due di prima, funzionerà anche con questo. Sì, ma i cinghiali non capiscono questa mia logica di ferro e vistosi cadere il sasso nelle sue immediate vicinanze, il porco mica se la dà a gambe; anzi pare ingrifarsi di più ancora e si avvicina in linea retta verso di me. Durante la sua corsa intravedo la grossissima schiena arcuata e pelosa. La paura e l'agitazione salgono; armato del mio povero bastone non riesco neppure a muovermi e se guardassi la scena dall'esterno mi sembrerebbe di essere in un cinema ad assistere ad un film d'avventura in cui il mostro della foresta sta attaccando il protagonista sfigato che verrà squartato, manca solamente la musica di mistero e terrore di sottofondo.
Giunto a circa cinque-sei metri da me, si blocca di colpo, sbuffa e grugnisce. Altro sasso scagliato che non lo sfiora nemmeno, altri porconi. Riparte ma anziché venire verso di me, scarta rapidamente verso sinistra che nemmeno Maradona avrebbe fatto di meglio e si piomba lungo il pendio verso il fondo del buio vallone in cui mi trovo. Mollo il bastone che stringevo sempre più forte tra le mani e questo cade al suolo e con lui cade anche tutta la tensione che si era accumulata nell'aria. Guardo il cinghialone correre in discesa e penso alla forza travolgente di quell'animale che finalmente ha trovato la via di fuga che un pirla alla ricerca di castagne, con un lungo bastone ed un grosso sasso tra le mani, gli stava minacciosamente chiudendo.

Nda: dotato di una muscolatura potentissima e di una elevata resistenza, un esemplare di cinghiale maschio può tranquillamente pesare oltre 150 kg. Il corpo appare massiccio, squadrato, con una grande testa dal muso allungato. I canini inferiori (le famose zanne) possono raggiungere la lunghezza di 15-20 cm e sono utilizzati sia per scavare il terreno alla ricerca di cibo che come terribile arma di difesa. Ultimamente i cinghiali si stanno rapidamente diffondendo nei nostri boschi, tanto da diventare un serio problema a causa dei danni al sottobosco che causano con la loro costante ricerca di bulbi e radici di cui sono ghiotti. In alcune zone si stanno addirittura organizzando battute di caccia al fine di contenerne la diffusione che ormai ha raggiunto anche le zone rurali con danneggiamenti a coltivazioni e campi.

 

Linee e Chiodi
di Will

Erano gialle e terribilmente scomode da usare.
O forse eravamo noi, terribilmente convinti di saperle usare. Gialle vive, con delle bordature fucsia e un odore di Yosemite che giungeva al nostro palato quasi ad istigare un sogno che forse in un futuro si sarebbe realizzato.
Non so come Livio si era procurato quel simpatico paio di staffe. So per certo che noi le avevamo guardate con occhi spalancati quando Eugenio (il fratello di Livio) le regalava ad Alfio. La vacanza natalizia ci aveva portato nell’Appennino Emiliano e la simpatica guida del Righetti era riuscita a convincerci che avevamo le capacità per giocare sui chiodi a pressione di Bismantova. Alfio ci prestò le staffe con la sua solita generosità che lo contraddistingue. Noi eravamo dei giovani Sassi vogliosi di scoprire l’immensità di quella Pietra che rappresenta forse l’unico punto di arrampicata dell’Alpe di Succiso.
La Donato Zeni con il suo passo del serpente, i suoi chiodi a pressione, l’immenso becco della sfinge e soprattutto la sua chiodatura originaria ci aveva catturato ancora prima di giungere al cospetto dell’Eremo che a ridosso di quelle pareti di Arenaria osserva numerosi alpinisti sognare.
Era la vigilia di Natale e la nostra voglia di giocare con quelle staffe era altissima. Non avevamo mai provato sino ad allora ma non so per quale motivo, eravamo sicuri di poterle domare. Arrivammo velocemente al passo del Serpente, un simpatico cunicolo che consente di guadagnare una piccola trincea situata a metà parete e quasi impossibile da individuare dai sentieri sottostanti. Qui notammo sulla sinistra dei vecchi spit con annodati diversi cordini e un vecchio rinvio penzolante. Il sorriso fu la prima cosa che notai sulla faccia di Luca. Quel simpatico oggetto abbandonato da chissà chi… e soprattutto da chissà quanto tempo doveva essere assolutamente nostro. Partii armato di staffe e ci saltai sopra testando il vecchio ancoraggio. Raggiunsi facilmente il rinvio e lo sventolai in faccia al mio compagno con la felicità che prova un bambino a scartare il suo primo regalo di compleanno. Continuai a salire sulla staffa, un gradino dopo l’altro, provando non poche difficoltà di equilibrio. Il mio peso unito alla verticalità della parete mi rendeva instabile. Ben presto capii che la protezione successiva era impossibile da raggiungere e lasciai tentare al mio compagno che osservava la scena con un’aria divertita.
Luca si arenò nel mio stesso identico punto e riponendo nuovamente in loco il fatidico rinvio ci calammo alla sottostante sosta e raggiungemmo per la prima volta la sommità della Pietra mediante la classicissima Zuffa-Ruggero.
Le staffe tornarono ben presto ad Alfio ma la voglia di sfidare il magico mondo strapiombante aumentava di giorno in giorno soprattutto leggendo le pagine di storia della Valle del Sarca.
Tornai altre volte a Bismantova ma alla Donato Zeni non dedicai altro tempo.
E’ stato lo scorso settembre, in occasione di un corso di roccia che le lancette dell’orologio iniziarono a girare all’incontrario. Il sapore di quella via stava tornando vivo. Marco, Stefano e Thomas si fidarono (forse un po’ troppo) della mia voglia di riporre nuovamente i miei polpastrelli su quella linea di salita e accettarono l’invito anche in funzione del fatto che erano incuriositi delle mie staffe attaccate all’imbraco. Era il 17 settembre del 2011 e il passo del Serpente incise su di loro lo stesso sorriso che avevo avuto io quella vigilia di Natale.
Il rinvio aveva atteso ben 5 anni il mio ritorno e proprio mentre l’osservavo incuriosito un ragazzo impegnato sulla Zuffa mi chiese se ero intenzionato a salire la Donato Zeni ricordardomi che il tiro in artificiale si trovava al di là dello spigoletto di destra e che il rinvio era il segno tangibile di una ritirata da una variante di 6b.
Salii quei chiodi a pressione intervallati da fix mentre intorno a noi si sollevava leggermente il vento. Sostai proprio sotto il tetto della Sfinge e mentre i miei compagni di avventura salivano guardavo l’impressionante variante di A2 che sfida la gravità.
Guadagnammo la vetta mediante la via originale e la giornata proseguì tra le chiacchiere degli amici.
Il tempo passa e le persone, oltre ad invecchiare, crescono. I sogni mutano e la maturità consente di cambiare angolazione e scrutare con occhi diversi le cose. Un alpinismo da agonismo non m’interessa più. Dedico molta più importanza ai compagni di cordata anziché alle vie e in seguito ad un piccolo progetto mi ritrovo ad arrampicare alla Pietra con Paolo e Diego. Con loro nasce il desiderio di salire la Donato Zeni e di giocare con il vuoto del becco della sfinge. Diego è molto bravo con le staffe e ingolosito si lancia a capofitto nel vuoto. Con una velocità impressionante guadagna la vetta e subito dopo mi ritrovo a girare su me stesso nel vuoto catturando l’attenzione di qualche falesista della domenica. Paolo sorride e non perde occasione di immortalare le mie fatiche e… mentre m’appresto a guadagnare per l’ennesima volta quel pianoro sommitale tanto uguale ma sempre diverso, riesce a farmi sentire per l’ennesima volta felice.

 

I cento anni del CAI di Reggio
di Will

E' il vuoto della casa ad amplificare il rumore di questa fitta pioggia che incessantemente batte sul tetto di questa casa vuota. In giro non c'è neanche il solito vecchio che dalla panchina del parco guarda impaziente la luna comparire all'orizzonte.
Tra le mani questa sera c'è Lamberto Camurri che racconta il suo nuovo mattino mediante le pagine, un po’ ingiallite, di un libro stampato in bianco e nero. Si racconta di salite di ghiaccio e di misto, si racconta dell’erba della Valle del Sarca e della sabbia della Pietra di Bismantova.
Bismantova, quelle pareti che dal nulla salgono verso il cielo; Bismantova, quell’insieme di versanti che portano su di un pianoro dove non esiste vetta, dove non esiste lotta; Bismantova, quel luogo d’incontro spirituale che compare improvvisamente davanti agli occhi di ogni alpinista poco prima di entrare in Castelnovo.
Ed è su queste pareti che ultimamente gioco con le staffe. Diego da un po’ di tempo non fa altro che parlarmi uno spigoletto su cui andare a mettere le mani. Decido di seguirlo con la certezza che le emozioni che circoleranno saranno altissime.
E’ martedì e a parte il vecchio frate che di buona mattina ha celebrato la messa non c’è in giro nessuno. Persino i muratori che si stanno prendendo cura del vecchio rifugio Krunz questa mattina si sono svegliati tardi.
Raggiungiamo l’attacco senza perdere molto tempo consapevoli del fatto che quella manciata di metri strapiombanti ci avrebbe impegnato per un bel po’.
La base della parete ha un’aria diversa, oggi è tutto deserto mentre ieri sera gli schiamazzi dei falesisti si sentivano sin dal parcheggio del buon Tamburini che anche per questa settimana si prenderà cura di noi viziandoci con abbondanti cene.
La fessura iniziale si presenta con erba, roccia instabile e chiodi marci, così in attesa di una (nostra?) ripulita decidiamo di raggiungere i primi chiodi a pressione mediante la variante Graziellina. Qui il vento ci abbraccia. Oramai la parete inizia a strapiombare e quei chiodini piantati tanti anni fa da Ginetto Montipò e Renzo Quagliotto c’invitano a proseguire con la promessa che il sole non ci avrebbe abbrustolito nonostante la data sia più adatta ad una salita in quota.
L’elicottero all’improvviso fa il suo ingresso. L’aria ci viene spazzata addosso violentemente e un gruppo di ometti rossi si allena, sulla vicina Pincelli Brianti, a salvare la vita a qualcuno.
Lo spigolo arrotondato sale verso il cielo e Diego inizia una vera e propria lotta per guadagnare, metro dopo metro, la sommità. Parte dei chiodi a pressione, un tempo piantati con dovizia geometrica, sono stati brutalmente distrutti (chissà con quale diritto) a colpi di martellate da qualcuno che un bel giorno decise di imporre una libera altissima. La violenza è stata notevole visto le ferite che questa roccia ancora conserva e che per anni ha tenuto lontano gli amanti del vuoto come noi.
Progredire è sempre più faticoso e siamo costretti ad aggiungere qualche protezione oltre che costruirci, con un ramo ed un cliff, una piccola prolunga.
Il tempo passa velocemente e tra un recupero e l’altro resto incuriosito da un piccolo uomo che dalla base del Pilone continua a perdere lo sguardo nel nostro infinito. Il tempo per fantasticare non manca e oltre a sognare le vertiginose pareti delle dolomiti continuo a chiedermi chi possa essere interessato a seguire due carpentieri come noi.
Il successivo tiro d’artificiale c’impegna non meno del precedente ma quantomeno la sosta consente di riscoprire il piacere di stare con i piedi appoggiati.
Alla sommità mancano una trentina di metri che non si dimostrano per niente banali e le ore che sono trascorse in questo breve viaggio ormai non si contano più. Mentre mi appresto a recuperare gli ultimi rinvii Diego mi racconta di un uomo che è venuto a complimentarsi con noi. Col solo sguardo carico di gioia mi fa capire che la nostra ripetizione non è sfuggita al custode di questo capitolo di storia. Ginetto Montipò ci cattura, c’intrappola nel suo universo. Ci fa scoprire la Ovest della Pietra e le sue linee di salita. Il tempo che ci separa dalla birra di fine giornata è breve e qui quest’uomo ci svela la sua semplicità. Il più grande ricordo di questa giornata.

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Brace sotto la cenere
di Omar

Arriva sempre poca gente qui.
Non che la cosa mi dispiaccia, anzi. A dire il vero, ne sono proprio felice.
Sarà perché la strada da fare è tanta e faticosa, sarà per quel punto esposto ad inizio sentiero, oppure per le catene che si incontrano a metà. Che sia quel che sia: io non posso desiderare altro. Qualche piccola difficoltà che riesce a tenere lontano da questo posto incantato la massa vociante di camminatori della domenica, quelli che arrivano, mangiano e se ne vanno senza lasciare nessuna traccia del loro passaggio: un sorriso, due parole, una goccia di sudore, una firma nella mia memoria.
Qui arriva gente abituata a camminare in silenzio, che si guarda attorno e gode dei suoni, dei colori, dei profumi. Gente con cui scambiare quattro chicchere davanti ad un camino sempre acceso, ed un bicchiere di quello buono. Gente di cui non ricordo mai il nome, ma le rughe sulla faccia ed i calli delle mani sì.
Qui mi sono trasferito con mia moglie Rossana anni fa; quanti non ricordo ma non importa. Non siamo saliti fin qui per fuggire da qualcosa, o per ricominciare una vita diversa. Siamo venuti qui per passione, più mia che sua, e per amore, nostro. All’inizio ci hanno seguito anche i nostri figli, entusiasti di un mondo nuovo che nascondeva segreti e meraviglie ad ogni angolo. Poi, crescendo, hanno iniziato ad annoiarsi, le loro esigenze sono cambiate, le piccole magie di questi luoghi non li hanno più lasciati a bocca aperta. Hanno iniziato a salire solo durante le vacanze estive, poi con la scusa del marito o del lavoro, le visite si sono fatte sempre più rare e più brevi. Ora vediamo i nostri figli nelle ricorrenze principali dell’anno, ma è normale. Appena possiamo scendiamo noi da loro.
A dire il vero, il progetto originale di gestire un piccolo rifugio di montagna era venuto a me e al mio amico Mattia, detto Bartolomeo, quando ancora giovani ed illusi sognavamo di scappare dal caos della quotidianità. Lo volevamo spartano e ameno, lontano dalle masse, semplice e senza fronzoli. Per veri montanari.
Alla fine, questo sogno l’ho realizzato con mia moglie. Il rifugio, di cui non vi dico il nome, è particolarmente piccolo, poco più di una baita, adagiato in una bellissima conca erbosa circondata da alte pareti rocciose e con la vista su lontani boschi di abeti scuri; un rivolo scorre ripido a poche decine di metri dal rifugio e la neve rimane fino a tarda estate in alcuni canaloni qui vicino. Le nostre giornate scorrono tranquille e uguali a loro stesse, ma mai noiose. Uguali come può essere uguale a se stesso, ogni giorno, il sorriso di una donna che vi ama. La colazione di mattina presto, il pranzo con la pastasciutta, la cena con minestrone di verdure; la polenta che non manca mai, del buon formaggio, salame e la domenica il dolce che prepariamo in casa. Pranziamo e ceniamo sempre con i nostri ospiti, se ci sono, allo stesso grande tavolo tarlato. Quattro passi la mattina, un riposino il pomeriggio e poi ci dedichiamo alla manutenzione, alla cucina e al piccolo orticello dietro il rifugio. La corrente non si spreca, alle dieci di sera spegniamo tutte le luci; il camino è sempre acceso, spesso anche nelle sere di inizio estate, ci raduniamo attorno al fuoco per fare due parole, poi tutti a letto. Niente fronzoli dunque, niente birre, né coca cole, ne merendine, solo caffè, tè, vino ed un poco di grappa. Così volevamo il nostro rifugio e così è. Chi viene una volta, poi torna. Torna per il posto, ma torna anche per il clima di sobrietà e semplicità ed è questo che cerchiamo.
Ma oggi è un giorno speciale. All’inizio del sentiero ho messo un foglio con scritto “Oggi rifugio chiuso”. Aspettiamo ospiti speciali, compagni di un tempo, amici di sempre. Sono anni che non ci incontriamo tutti e quattro. Troppi anni. Oggi il rifugio è solo per noi e per le nostre storie, i nostri ricordi, i nostri odori ed i dolori.
Il primo ad arrivare è il Giuliano, detto Giuly, sempre puntuale da una vita. Capace di aspettare interi quarti d’ora fuori dal cancello di casa mia leggendo un libro perché in anticipo sull’orario dell’incontro. Fedele alla teoria che è meglio aspettare che essere aspettati, anche oggi non si smentisce. Giuliano ha fatto il militare, è rimasto ore fermo davanti ad una bandiera ed ha imparato che a volte si può dire sissignore e non essere d’accordo. Eccolo con sua moglie Donatella, detta Doni, rossa paonazza e sorridente come sempre. Giuliano voleva un figlio maschio. Solo dopo due belle bimbe, è arrivato il pargoletto che ora è quasi maggiorenne. Lo voleva chiamare Attila, ma il veto imposto dalla moglie ha salvato il poveretto. Voleva un maschio per insegnargli a pescare. Ed ora che il figlio è campione provinciale di pesca può ritenersi realizzato. Giulio porta gli occhiali da una vita e anche questa volta gli si appannano entrando nel rifugio, come tutte le altre volte, rimane lì per un attimo sulla porta d’ingresso ad aspettare che gli torni la vista e poi si guarda intorno, si asciuga il naso, appoggia lo zaino in terra e abbraccia mia moglie. Giuliano vorrebbe capire come funzionano le cose e come funzionano le persone. Per farlo ha letto milioni di libri, ma ora ha capito che la risposta stava nella prima pagina del primo libro che ha letto da ragazzino. Solo che ora non ricorda più quale fosse quel libro.
Si avvicina anche Mattia, detto Bartolomeo e da lontano lo si riconosce subito, sotto il peso del suo mitico ed enorme zaino. Ha un andatura ciondolante, lenta ma costante. Bartolomeo ha gli occhi tristi di chi nella vita ha preso tanti calci nel culo e il sorriso furbo di chi da un po’ ha cominciato a restituirli. Gli vado incontro e lo trovo solo, senza la compagna. “Solo?”. “Sì…” risponde. “Mi ha piantato ieri!”. Calcio in culo. “Ma ieri ho conosciuto una che mi ha lasciato il numero e ci vediamo settimana prossima!”. Calcio restituito. Arriviamo assieme alla porta del rifugio e come al solito Bartolomeo bacia mia moglie un po’ troppo affettuosamente, ma ci sono abituato. Mi guarda di sottecchi e sorride furbetto, dietro quella barba folta e bianca dove a volte le parole si perdono prima di farsi sentire. Porta ancora la bandana arrotolata sulla fronte, come anni fa, per impedire che le gocce di sudore gli vadano negli occhi o sulle labbra e non sentire il sapore della sua fatica.
Manca solo Lucio, Lucino per gli amici, anche se non è poi tanto piccolino. In ritardo come al solito. Lucio odia le sveglie e le zanzare, sorride sempre e parla ad alta voce. Ha girato il mondo ed è sempre tornato a casa sua. Invecchiando si è tranquillizzato, ma da giovane non gli bastava mai nulla, si incazzava sempre e protestava. Per qualunque cosa protestava. Lucio era forte, il migliore. Una volta è andato in cima all’Everest e, a 10 metri dalla vetta, è tornato indietro. Per protesta. Semplicemente si è girato ed è sceso. Eccolo che si avvicina. Anche da lontano lo sentiamo parlare con la Clara, compagna da una vita, probabilmente ce l’ha con qualcuno o con qualcosa e si sfoga con lei che amorevolmente lo ascolta. Portava i capelli lunghi il Lucio, poi li ha tagliati cortissimi e adesso che ne ha pochi, gli sono rimasti i pensieri ed i ricordi, che quelli non cadono mai, né si possono tagliare con una forbice.
Entriamo tutti nel rifugio e dopo i saluti e tante parole che non capisco, le donne se ne vanno in cucina a parlare di cosa non so e non voglio sapere. Noi restiamo davanti al camino spento e nero, ma potremmo essere anche altrove, sotto la pioggia o in riva al mare Eccoci qui tutti e quattro. Quattro uomini dall’età indefinita, che cambia ogni giorno, come cambiano le nuvole nel cielo e la forma della luna. Quattro amici sotto vento. Otto mani rovinate. Otto piedi che hanno conosciuto sassi e ghiaccio, sabbia e prati, neve e fango. Quattro vecchi pieni di ricordi e con qualche sogno che si fa fatica a confessare. Quattro alberi che hanno imparato a piegarsi sotto il peso della neve e a resistere alla sete. Eccoci uno di fronte all’altro senza dire una parola, a guardare un pugno di cenere grigia dentro un camino spento ma ancora caldo.

“E poi ci troveremo come le star, a bere del whisky al Roxy bar. Oppure non c’ incontreremo mai. Ognuno a rincorrere i suoi guai. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso. Ognuno in fondo perso dietro i fatti suoi.”
V. Rossi

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Frecciarossa 9610
di Will

Lentamente sui chiodi a pressione della Cismon ’85 alla Cima Campiglio

Frecciarossa 9610. Ore 6.50. Bang on time direbbero gli inglesi. Il treno viaggia con una precisione assoluta. Il mio occhio cade sul monitor del corridoio dove Trenitalia, con un po’ d’orgoglio, informa silenziosamente i viaggiatori che il convoglio sta viaggiando a 300 Km orari. Stratosferico penso tra me e me. Velocità mai raggiunta prima. Milano-Roma in poche ore; meno di quelle che richiederebbe un viaggio in aereo.
E’ mattina presto e le poche ore di sonno della scorsa notte s’impadroniscono di me con molta facilità. Mentre sto per chiudere anche la seconda palpebra, un sorriso mi si stampa sulle labbra e la mente mi riporta alla domenica precedente e alle ore che ho trascorso immobile attaccato alla parete.
Lo spazio dell’arrampicata: un posto dove l’unica velocità costante è quella della lancetta dell’orologio che segna i secondi. Secondi che diventano minuti. Minuti che diventano ore.
Non so che ora sia e non ho voglia di scoprirlo. So solo che sta piovendo a dirotto da diverso tempo e che Paolo è intento a giocare con la telecamera cercando di registrare emozioni. Io sento freddo alle mani e con forza sempre maggiore… quasi a sperare di aumentare la circolazione del sangue… tengo strette le mezze corde che mi legano ad Ermanno. Ermanno è un tipo forte. Uno che non ha paura del meteo. Uno che non ha paura delle lancette. Una volta ha passato 72 ore immobile attaccato ad una parete che la mia mente ha spesso sognato. La sveglia è suonata alle 4 e tutta la notte ha piovuto a dirotto. Dopo aver indossato i calzini, sono quasi sicuro che ben presto ritornerò sotto le coperte perché sono certo che né Ermanno né Paolo vorranno salire al Rifugio Brentei con questo meteo.
Mi sbaglio di grosso e ben presto inizia il breve viaggio verso Vallesinella.
Ultimamente gioco con le staffe. Il mondo capovolto mi piace e non so dire il perché. Qui tutto funziona in maniera strana. Non so che cosa effettivamente mi piaccia di questo lavoro di carpenteria. So che ogni salita è una festa. So che ogni volta che infilo il piede nella staffa sono felice. Condividere la felicità di una salita con i miei compagni di cordata è tutto quello che chiedo alla montagna. Con Paolo e Luca abbiamo recentemente ripetuto la via Istantes al Monte Cimo. Le protezioni sono buone ma nonostante tutto il libro di via vanta poche firme quasi a testimoniare l’assoluto disinteresse verso questa disciplina. Il giorno dopo la ripetizione Ermanno al telefono mi rimprovera di non averlo invitato e così è lui a lanciare il dado per il weekend successivo.
La via che stiamo salendo è impegnativa. I chiodi a pressione sono artigianali e costruiti dall’apritore durante gli anni di servizio nell’aereonautica. Umberto Marampon impiegò ben 4 giorni per salire e chiodare, rigorosamente a mano, queste cinque lunghezze di corda. Cinque lunghezze che fanno passare la voglia di ripetere Vertigine al Monte Brento. Cinque lunghezze per ricordarci che il tempo scorre sempre uguale e che l’uomo deve viverlo al meglio. Cinque lunghezze che sfidano il vuoto per ricordarci che l’alpinismo ha diverse facce e che ognuno di noi sceglie quella che preferisce. Cinque lunghezze impegnative che ci insegnano che in montagna, come nella vita, tutte le difficoltà vanno affrontate con decisione.
Il silenzio che circonda la valle viene rotto dall’urlo gioioso del mio compagno che finalmente ha raggiunto la sosta. Mollo le corde e con velocità ne facilito il recupero ad Ermanno. Paolo sale davanti a me e in breve siamo sotto il grande tetto di nove metri. I chiodi sono distanti e qui inizia la nostra acrobazia. Lentamente, a volte dondolando, a volte mettendoci orizzontali e paralleli alla parete progrediamo. Nella mia mente non c’è nulla. Non un pensiero, non una preoccupazione. C’è solo il mio animo felice. Raggiungo la fine del tetto e un sospiro esce dalla mia bocca. Sotto di me non c’è nulla. Il vuoto totale. Le nebbie che per ore ci hanno protetto lentamente si alzano. La pioggia smette di cadere e il rifugio Brentei che ancora custodisce l’anima del grande Bruno Detassis ci saluta. La valle è completamente deserta e solo un paio di escursionisti armati di mantella rossa ci notano e ci guardano incuriositi. Ora la parete strapiomba ancora ma il tratto più impegnativo è superato. Le due lunghezze che ci separano dal sentiero delle bocchette ci richiedono ancora parecchio tempo, ma non ha importanza. Il Crozzon di Brenta fa il suo ingresso e sorride al pensiero che esista ancora qualche pazzo interessato a correr dietro ad una fila di chiodi. Noi lo salutiamo con un inchino.
Scendiamo a Vallesinella abbastanza in fretta. Una tappa al Rifugio Casinei per porre fine a una sete tremenda.
Lasciamo Ermanno alla sua piccola casa sperduta nel bosco di Massimeno e salutiamo i caprioli e le caprette che quotidianamente si prendono cura di lui. Il viaggio verso Bergamo prosegue lentamente e senza intoppi. Domani sarà un altro giorno. Domani sarà un’altra avventura.

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Solo
di Will

Mi perdo con lo sguardo all’orizzonte. Non conosco nemmeno il nome del monte che ho di fronte ma “senza chiedere permesso” e soprattutto senza rendermene conto mi isolo su questa piccola vetta da due metri quadrati perdendomi nel mio infinito.
Alla mia destra una vecchia sosta a chiodi con un groviglio di cordini di dubbia tenuta. Alla mia sinistra una nuova sosta a fix. Due epoche a confronto e io seduto nel mezzo a cavalcarle. I miei compagni sono 50 metri sotto di me, alla base della parete. Dovrei raggiungerli quanto prima ma con un po’ di presunzione rubo il loro tempo e me ne approprio.
Abbiamo salito una nuova linea. Nuova per noi quantomeno. Ieri dalla Cavalcata del Tricorno il Pilati ha adocchiato una fessura, un camino, uno spigolo, un’avventura. Oggi, dopo aver risalito il ripido vajo abbiamo giocato con la roccia e la sua intimità.
La via è breve ma tutti noi abbiamo potuto metterci in gioco con un terreno dove le certezze non esistono. Dove un passo ne segue un altro con una tranquillità che insegna a respirare.
Gradi, difficoltà e tutte le altre puttanate ora non m’interessano. Tra qualche giorno scriverò una relazione, Diego farà certamente un disegno. Forse un giorno verrà anche ripetuta ma nessuno potrà mai appropriarsi o comprendere le emozioni che questa giornata ci sta regalando. La salita è stata condivisa. Insieme, tutti e tre, abbiamo arrampicato. Cosa si può chiedere di più?
Chi beve birra con me sa che l’ammirazione che ho verso Ettore Castiglioni è qualcosa di anormale, per certi versi maniacale… e in questo momento non posso che non pensare a lui e all’incidente che lo costrinse a trascorre da solo diverse ore sull’altopiano delle Mesules. Per lui fu una gioia; un dialogo infinito con la montagna. Altri tempi. Altri giorni grandi.
Ora è tardi e devo scendere. Sono contento e nulla in più posso chiedere a questa giornata. I miei amici continuano a sorridere e a scherzare come due fratelli. Insieme ridiamo fino a tarda sera. Insieme, seduti ad un tavolino con la tovaglietta rossa, progettiamo il nostro futuro.

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Istanti
di Will

Il sole è basso e i suoi tiepidi raggi non raggiungono ancora le nostre mani, che con lentezza pongono nello zaino la ferramenta, che ci permetterà di giocare con il nostro equilibrio e con le nostre emozioni.
Il sentiero è ripido. Oggi pare che lo sia ancora di più. Tutti noi siamo per l’ennesima volta in agitazione per il mondo capovolto con cui presto, ci confronteremo.
Con Paolo e Luca parliamo di progetti. Apriamo lentamente il cassetto dei sogni per paura, che tutta la magia che è custodita al suoi interno svanisca in fretta. Qui c’è tutta la nostra intimità e man mano che saliamo verso l’attacco, iniziamo a condividerla sicuri che non verrà dispersa.
Emozioni semplici ma vere. Sogni che forse un giorno diventeranno realtà. Sogni a volte posati su delle fondamenta non ancora gettate. Sogni a volte fondati nella semplicità della vita quotidiana. Una semplicità che ci permette di assaporarne il vero valore.
Una fotografia custodita in un vecchio libro; un amico, che in una sera dove bottiglie e bicchieri danzano in allegria ti racconta di un progetto, che un bel giorno si è realizzato e che in disparte da tutti ti sussurra nell’orecchio che il vero segreto sta nell’attesa.
Parliamo di Monte Bianco e parliamo di Patagonia. Parliamo di grandi uomini del passato e parliamo di noi stessi.
In breve tempo ci dimentichiamo del notevole dislivello che presenta la prima parte del sentiero, e raggiungiamo la base della grande placconata del Sass del Mezdì. Sopra di noi incombono tre grandi tetti a scala che molti anni fa, lasciarono cadere dolcemente, tante piccole gocce d’acqua che lentamente hanno scavato la roccia. La stessa lentezza che caratterizza lo scorrere del tempo quando durante la settimana si lavora duramente in attesa di un po’ di sole. Spesso qui c’è gente ma quest’oggi a farci compagnia è solo la lucertola che tutta sonnolenta lascia la fessura vicino al vecchio chiodo piantato da chissà chi.
Paolo sale accarezzando la roccia, strofinando gli appigli, sorridendo a questa giornata. Luca ed io lo raggiungiamo ben presto.
Un mondo capovolto ci attende. Le protezioni appaiono ben sicure e questo ci tranquillizza. Lentamente Luca affronta il grande tetto allontanandosi 15 metri da noi. Lo vedo dondolare in un gioco di luci e di ombre. Lo vedo muoversi con la stessa dolcezza con cui una mamma culla un bambino. Il vuoto sembra proteggerci, la roccia abbracciarci.
Un vecchio barattolo del caffè ormai completamente arrugginito conserva una traccia delle poche persone che qui sono passate prima di noi. Con stupore scopro di alcuni amici.
In breve raggiungiamo la sommità e per la prima volta sentiamo la necessità di guardare l’orologio. E’ giunto il momento di ritornare alla base della parete. E’ giunto il momento di riporre tutto negli zaini e tornare al mondo. E’ giunto il momento di riprendere a respirare.

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Ostinatamente Controcorrente
di Will

Un viaggio sulla via Elena Eleonora alla Pietra di Bismantova

Il silenzio domina questa mattina fredda e uggiosa. Le pareti di arenaria sono completamente avvolte dalle nubi e tutto assume un aspetto mistico e religioso. La macchina sale a fatica la strada, che oggi, appare più ripida del solito e che conduce al solito parcheggio a ridosso della Pietra. Lo spettacolo è come sempre unico e uguale. Lo spettacolo anche oggi è affascinante. Noi, piccole marionette, ne restiamo affascinati.
Ho perso il conto delle volte che quest'anno abbiamo arrampicato alla Pietra. Il luogo è piccolo ma ogni volta scoviamo sempre qualcosa di bello e fuori dagli schemi, che è in grado di catturarci.
I rovi che conducono all'attacco ci infastidiscono leggermente ma la nostra ostinazione perdura e Diego inizia a litigare con il camino della prima lunghezza.
Oggi è un giorno feriale e dalla sosta della prima lunghezza del Pilastro Kreuz, riusciamo a dominare l'intera vallata. Mentre Diego, in silenzio, controlla i vecchi chiodi a pressione della via Elena Eleonora tracciata anni fa da Stefano Righetti, Paolo ed io perdiamo il nostro sguardo nell'orizzonte e nella bellissima parete nord del Pizzo d'Uccello che non riusciamo a vedere, ma che è nitida nelle nostre menti.
Qualche falesista raggiunge il parcheggio e guarda incuriosito tre antichi cavalieri dell'artificiale che dondolano nel vuoto. Noi, intenti a ripulire la lunghezza da numerose scaglie instabili, ridiamo guardando due vecchietti che dopo aver tentato di salire la via degli Svizzeri, stanno scendendo a corda doppia (perdendo scarpette e moschettoni) lungo il canale percorso cento anni fa dal Voltolini.
Puliamo a dovere e dondoliamo a lungo. Tutto strapiomba e tutto sembra perdere senso. Oggi le prestazioni di Ondra non sfuggono neanche ai non interessati all'alpinismo e noi come risposta a tutto ciò, ripiantiamo con forza i vecchi chiodi dondolanti del Righetti che riposano nelle poche fessure presenti.
Dopo quattro interminabili lunghezze di corda siamo in vetta. Un urlo di gioia ci ricorda il piacere di sognare. Questa volta non c'è nessuno ad aspettarci. Nessuno a regalarci un sorriso. Nessuno a dirci che nel frattempo qualcuno ha resuscitato il Drago di Messner.
Sulla grande distesa sommitale siamo soli con le nostre emozioni. Un vento leggero raccoglie le nostre gocce di sudore e le se le porta via. Verso il mare. Verso l'infinito.
Scendiamo lentamente lungo il sentiero della Calanca. Diego e Paolo restano intrappolati dalla bellezza estetica di alcuni monotiri e decidono di regalare a quell'arenaria le loro ultime energie. Io invece approfitto di un comodo terrazzo per sedermi e perdermi nel mio io. In breve la voce lontana di Ginetto Montipò si materializza e dopo un breve saluto guardiamo insieme il sole tramontare.
I silenzi si mischiano alle urla di numerosi falesisti, che al termine di una giornata di lavoro, lasciano qui le loro ultime forze. Qui scaricano la tensione accumulata. La Pietra assorbe tutto e regala loro uno sguardo di speranza.
Il sole oramai è scomparso. La temperatura è scesa e persino i miei compagni di cordata hanno deciso che è meglio rientrare. Insieme scendiamo, chiacchieriamo e fantastichiamo una nuova salita. Insieme, tra poco, berremo una birra.

 

Ventanas
di Will

L’ultimo raggio di sole s’è andato senza dire arrivederci, scomparendo diedro l’imponente vetta che sovrasta le nostre teste.
Da poco ho consumato il cibo che mi sono trascinato fin quassù. Con Luca abbiamo smezzato una barretta di cioccolato con la speranza di addolcire questa notte, che si annuncia fredda e intensa. Il vento soffia forte lungo questa valle dimenticata dal mondo. Il vento si prepara a darci la buonanotte. Su questa grande terrazza d’erba non siamo i soli. In questo sabato sera d’inizio luglio altre persone come noi hanno deciso che si potesse tentare questo imponente spigolo. Uno spigolo dove la fama della sua lunghezza precede la sua particolare bellezza. Una bellezza nascosta che appare solo alle persone che riescono ad andare oltre al semplice gesto dell’arrampicata. Una bellezza che spesse volte Luca ed io andiamo cercando.
Sono stati i 1620 metri di sviluppo e l’eco della via più lunga delle dolomiti, a innescare in noi, piccoli arrampicatori della domenica, la voglia di salirlo. Lungo questi metri di roccia e di erba però c’è dell’altro. Tra poco vivremo il nostro secondo bivacco in parete. In mezzo a questi mughi siamo riusciti a trovare dei piccoli spazi e qui, mentre aspettiamo che la nostra stanchezza abbia il sopravvento, siamo completamente rapiti dal cielo stellato. Intorno a noi solo stelle. Milioni di luci sembrano che si siano accese apposta per darci la buonanotte o forse per farci sentire meno soli. Il paese è molti metri più in basso e le luci delle strade non arrivano fin quassù. Luca ed io cerchiamo d’identificare qualche costellazione ma ben presto ci ritroviamo a condividere i nostri progetti, fondati su sogni comuni. Vie impegnative si alternano a lunghi viaggi in giro per il mondo. Insieme, sotto questo cielo cerchiamo di progettare il nostro futuro, consci del fatto che l’imprevedibilità delle nostre giornate ne è il più bel regalo.
Prima di chiudere occhio mi passa per la mente il ricordo di un ragazzo che non ho mai conosciuto e che mai potrò incontrare. Un libro trovato in un mercatino dell’usato me l’ha fatto conoscere. Il suo nome è Angelo e su questo spigolo è salito da solo. Un pomeriggio, dopo aver lavorato a lungo, è salito sulla sua 500 e arrivato sino a questa valle isolata, protetta dalla Croda Grande e dalle Pale di San Lucano. Dopo aver dormito poche ore su scomodi sedili si è incamminato lungo i ripidi prati che conducono alla roccia e da qui sino alla vetta con uno zaino pesante come compagno di cordata. Spesse volte si è ritrovato ad arrampicare senza un compagno, in solitudine. Spesse volte la solitudine, con la quale aveva imparato a dialogare, l’ha reso una persona migliore. I suoi scritti ne sono la testimonianza. Questo giovane ragazzo oggi non c’è più. Ha chiuso gli occhi per l’ultima volta sull’Eiger quando, all’età di ventitré anni, in compagnia di Sergio De Infanti inseguiva un sogno.
Mi sono avvicinato a De Infanti una sera, al termine di una conferenza a Tolmezzo. Gli ho chiesto di raccontarmi qualcosa su Angelo Ursella che non potessi leggere nei libri. Dopo qualche tentennamento mi ha risposto “mi manca da morire”. Queste parole, ora, mentre cerco un po’ di sonno si amplificano dentro la mia testa. In quelle poche e semplici parole è racchiuso tutto il mio significato di alpinismo. Se volessi ulteriormente riassumerle, potrei utilizzare una parola sola: condivisione.
Ora questa scomoda terrazza assume il confort di un albergo a cinque stelle. Ora il vento rapisce i miei ricordi e li trasporta lontano, verso le grandi pareti. Ora m’appresto a vivere le emozioni forti di domani.

* VENTANAS in spagnolo significa finestre.

 

Il Silenzio dei Colori
di Will

Il termometro che da sotto la tettoia guarda gli inverni passare lentamente, questa mattina mi consiglia di ritornare sotto le coperte. All'ora in cui tutti ancora dormono la lancetta non ha raggiunto lo zero. Intorno a me tutto risplende grazie alla neve che nei giorni scorsi è arrivata sino in pianura. Ignoro il consiglio del caro amico e, carico di ferramenta e corde, scendo a fatica gli scalini stando attendo a non inciampare.
Il rumore di un motore che lentamente sia avvicina mi fa capire che il mio compagno di cordata anche oggi ha tenuto fede all'appuntamento dato. La radio sta trasmettendo una vecchia canzone di Ligabue quando, sicuri dell'avventura che stiamo per vivere, lasciamo il paese.
La Gardesana è completamente libera e frettolosamente ci conduce nella grande e solare Valle del Sarca. Arco di Trento con la sua gente si è da poco svegliata e un ragazzo con un maglione rosso, forse reduce da una serata in discoteca, ci chiede una sigaretta mentre lasciamo il bar, dove un caffè ci ha risvegliato.
Mandrea è un'imponente fascia rocciosa che si nasconde dietro il castello che sovrasta la città e che da secoli vigila su queste pareti e sulle formiche che le salgono. La strada ora è coperta di neve. In breve raggiungiamo il parcheggio, dove scopriamo di essere soli.
Anni fa, in questo stesso luogo e sempre con Luca scoprivo la valle. Ai tempi era per noi un mondo nuovo e una linea di fessure e camini cadeva sempre nei nostri desideri. Oggi è una parete strapiombante a catturarci.
Il vento ci ricorda che l'inverno non se n'è ancora andato e ci suggerisce un abbigliamento pesante.
Troviamo senza difficoltà l'attacco e lentamente iniziamo a salire. Con due lunghezze di corda siamo alla base del grande strapiombo. La progressione atletica ora mi scalda, mi rimette in circolo il sangue. Una protezione dopo l'altra mi consente di progredire anche se molto lentamente. Qui come nella vita supero le difficoltà che ho davanti. Non ho vie di fuga. Devo solo respirare e guardare in alto. Un passo. Un altro, e poi un altro ancora. Dopo circa mezz'ora raggiungo la sosta. All'improvviso si alza il Peler; il vento che da Sarche soffia verso il lago. Qui il vento ci avvolge e questa piccola porzione di parete diviene infinita. Finalmente mentre recupero Luca, trovo il tempo per voltarmi e sbirciare dietro alle mie spalle. La neve e il silenzio che avvolgono la valle iniziano a dialogare con me.
L'amico mi raggiunge; scavalca la scomoda sosta e continua la sua salita verso il cielo.
Finito lo strapiombo, l'orologio ci riporta alla realtà. Le lancette non hanno risentito della temperatura rigida. In parete, a volte, si ha l'impressione che tutto si fermi, ma basta uno sguardo per capire che questa giornata è troppo importante perché possa essere lasciata a metà. Continuiamo a salire. Il giorno s'inchina alla notte quando oramai ci stiamo abbracciando sulle rocce terminali. In breve siamo al sicuro sulla strada carrozzabile che sale verso la piccola frazione di San Giovanni. Un pizzico di prudenza ci suggerisce che è meglio evitare il sentiero esposto che scende lungo la parete.
Ci incamminiamo lentamente lungo i 10 Km. che ci riportano alla civiltà, felici delle emozioni provate e condivise. Sopra di noi inizia a cadere qualche fiocco di neve e, il silenzio è interrotto solo da alcune macchine che salgono affannosamente verso una danza di bicchieri e bottiglie, noncuranti di due sognatori ancora estasiati.
Davanti a noi tanto asfalto. Davanti a noi una lunga e lenta camminata. 10 Km. per sognare ancora. 10 Km. per gustare con la dovuta calma le emozioni provate. 10 lunghi Km. per ripetersi che l'importante è bastare a se stessi. 10 lunghissimi Km. per parlare ancora di un sogno che lentamente prende forma.

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Sabbia
di Wil

“Dai scrivi!”. E’ il brevissimo messaggio del Ferro a dare il via alle danze.
Sono in difficoltà. Per la prima volta non trovo le parole. Non so da dove iniziare. Non ho un molo da cui salpare. L’onestà del momento mi dice che non so neanche dove voglio arrivare. Navigo senza una mappa. Sono un naufrago che cerca un’isola. Forse sto solo mentendo a tutti. Ho un’isola piena di tesori che voglio tutta per me. L’alpinista è per natura egoista.
Potrei raccontare di una piccola salita alla Pietra di Bismantova. Potrei dire che cinque lunghezze ci hanno richiesto più di dieci ore per essere superate. Ma improvvisamente ho paura. Mi sento incapace di raccontare emozioni. Descrivere la corda che ci ha unito, non è facile.
Pagina sessantotto della guida del Righetti, il nostro diario di bordo. Le date, scritte con una mano tremolante a fianco delle relazioni, sono l’unica cosa che scandisce il tempo del nostro esplorare queste pareti.
L’avventura è fuori di casa. E’ bastata un po’ di sabbia nell’appennino emiliano. Niente viaggi, niente spedizioni, niente sponsor. Piccole idee, un po’ di semplicità e gli amici giusti bastano a colorare le giornate.
La via del Bagnino spaventa tutti quelli che, dal suo attacco, alzano il naso al cielo. Le poche relazioni non lasciano scampo a una magra sentenza: impegnativa e terribilmente friabile.
Il paese dorme ancora quando, con passo lesto, passiamo davanti al piccolo luogo di preghiera che precede le pareti. Ignoriamo con discrezione il cartello di divieto e, in breve, siamo nel cortile privato dell’eremo. Un saio appeso al davanzale di una finestra viene cullato da un leggero vento. Aumentiamo il passo e raggiungiamo l’attacco della via. La falesia della Banana è ancora deserta. Forse oggi tutti penseranno solo a salutare questo 2013 travagliato.
Con noi zaini pesanti. Nel mio ci sono 60 chiodi. Diego ne ha costruiti diversi per lasciarli in parete. E’ la prima volta che ne vedo così tanti insieme. Pesano parecchio. Ai miei compagni non nascondo di essere emozionato. Loro, lo sono altrettanto. Compare davanti a me il 1935. Riccardo Cassin e Vittorio Ratti stanno per attaccare l’Ovest di Lavaredo. Approfittarono della nebbia per non essere visti. Solo i violenti colpi di martello, che risuonavano nella valle, facevano intuire che una nuova pagina di alpinismo sarebbe presto stata scritta. Chissà come andarono le cose qui nel 1980…
Ora c’è il sole e a dirla tutta, anche una gradevole temperatura. Diego sale in fretta i primi metri di erba verticale e inizia a piantare chiodi. Uno dopo l’altro. Lentamente. Molto lentamente a essere onesti. La sistematicità è l’elemento chiave.
Il tempo e le difficoltà perdono il loro significato. Ci risiamo. Anche per questa volta va bene così. Oggi non c’è un record da abbattere o un trofeo da conquistare. Oggi basta convivere con quello che siamo. Con i nostri pregi e con i nostri difetti. Non abbiamo via di fuga. E’ così quando si arrampica. Accettiamo quello che siamo e continuiamo la salita.
Diego impegna due ore per percorrere la prima lunghezza. L’arrivo in sosta è carico di un entusiasmo contaminante. La nostra attesa è già dimenticata, le ore azzerate, i minuti annientati. Saliamo recuperando i chiodi.
La seconda lunghezza è più breve ma non meno impegnativa. La sosta sotto a un tetto ci tiene lontani dal sole, ma ci regala una vista mozzafiato sulle montagne che circondano questo teatro. Improvvisamente mi sento colpevole. Oggi come non mai vedo i miei limiti. Prendo coscienza di quello che sono. Prendo consapevolezza del sapere che i miei compagni di cordata lo accettano.
La quarta lunghezza viene salita quando ormai le temperature sono scese. Le luci illuminano la piccola contrada di Ginepreto. A pochi metri dalla vetta dobbiamo scendere. Gli amici ci stanno aspettando.
Torniamo la salita la mattina successiva. Appena raggiunta la vetta avverto dentro di me la voglia di gridare. Ma non ho il coraggio di un bambino. Il mio universo colorato resta dentro di me. Ho paura a condividerlo. Imbocco il sentiero di discesa. In silenzio. Il sole è alle mie spalle e la mia ombra precede il passo.

 

 

Il Guardiano della Diga
di Omar

“Natalina! Sono tornato! Ho una fame del diavolo!”
La signora Natalina non risponde.
Giacomo, un omone alto quasi due metri e possente, tanto nel fisico quanto nella volontà, entra dalla piccola porta della casa di pietra. Si toglie il cappello e lo appende al gancio in legno accanto all’uscio. Mentre appende il cappello, lo guarda e sembra che con esso abbia appeso lì anche la sua anima, in attesa di riprendere entrambi prima di uscire e tornare al suo lavoro.
Giacomo è il guardiano della diga. Un lavoro massacrante, in questa valle remota e senza nessuna strada, con un cielo a volte blu e a volte grigio sopra la testa e una terra sempre scura sotto i piedi. Guarda la tavola ancora spoglia, si volta verso il tinello e chiama i figli: ”Ettore! Anna! Perché la tavola non è ancora apparecchiata?”
Nemmeno i figli rispondono.
“Sempre a spasso quei due… uno a cercar ragni e l’altra a raccogliere calendule…”
L’uomo si avvicina alla povera credenza dalle ante cigolanti, la apre come se fosse una finestra che guarda su un mondo migliore, ma vi trova solo il vino, del pane e una grossa forma di formaggio ormai troppo stagionato...
Si siede da solo al tavolo e inizia a mangiare contando i quadrati bianchi e rossi della tovaglia. In tanti anni non è mai riuscito a capire se fossero di più quelli rossi o quelli bianchi. Maledetti quadrati, stupidi e arroganti. Avrebbe voluto tanto una tovaglia con i fiori o con la frutta disegnata sopra che così sarebbe stata più facile da contare, ma la Natalina si ostinava ad usare quella. Oppure quell’altra, tutta bianca, che dopo dieci minuti era già sporca di sugo, vino e chiacchiere inutili.
Giacomo termina il suo pasto da solo. La moglie e i figli non si sono visti. Guarda la grossa sveglia appesa al muro che un tempo suonava tutte le ore ed anche le mezz’ore, mentre adesso emette solo un sordo rumore ogni tanto, ma nessuno si volta più verso di lei per controllare se sia presto o tardi. Si alza, scuote la testa e pensa che quelle due piccole pesti non sono tornate, perse dietro i loro giochi, mentre la moglie sarà da qualche parte a fare la legna fine per accendere il camino.
“È tardi, devo tornare alla diga, che se non ci sono io, tutto va a rotoli e poi chi li sente quelli dell’ENEL e il sindaco del paese e l’ingegnere che si incazza se qualcosa non funziona”. Non che questi personaggi gli facciano paura; Giacomo ha camminato e lavorato nella notte, durante i temporali più furiosi, con l’acqua alle caviglie a sistemare cavi e collegamenti e non sono certo due omuncoli in giacca e cravatta a fargli paura. Ma il lavoro è lavoro.
Riprende il suo cappello appeso e con un gesto veloce e automatico lo sbatte per togliere la polvere e le foglie che si sono accumulate. Sul cappello e sull’anima.
“Il mio è un lavoro importante, nessuno lo farebbe se non ci sarei io…quello che c’era prima di me è scappato via con il fuoco al culo appena ha capito i pericoli e le fatiche. Ma adesso a me non mi scaccia neanche il diavolo, che se verrebe qui lo prendo a pugni e lo annego nel lago".
Venuta la sera, il guardiano della diga torna a casa. Apre la porta e annusa l’aria, calda e umida di muffa. Cerca, tra gli odori ormai famigliari, quello della minestra di sua moglie, con i ceci e le fave, come la faceva sua mamma da piccolo. Li trova e li segue come un cane segue la traccia della preda. Entra nella povera cucina, buia e triste, ma sul fuoco non ci trova nulla. “Natalina! Ma che ore sono!? Vuoi farmi morire di fame!?”. Ma nessuno ascolta le imprecazioni di Giacomo, nemmeno i figli.
L’uomo, prende la solita bottiglia di vino, con l’etichetta su cui c’è un bel paesaggio toscano, con le colline dolci e i filari di cipressi. La fissa con gli occhi stanchi e si perde nel liquido scuro dietro il disegno sbiadito. Si ricorda del suo viaggio di nozze a Firenze, della campagna attorno, di una chiesa enorme con il tetto a forma di cupola in mattoni rossi, di un fiume di cui non ricorda il nome ma il colore sporco e opaco, non come i torrenti limpidi e chiari dei suoi monti. E ripensa a quando ha fatto l’amore per la prima volta con sua moglie, proprio lì in quella città così lontana dai suoi amici, dai sui parenti, dalle sue capre. Avrebbe voluto farlo, invece, all’ombra dei suoi boschi, tra l’erba dei suoi pascoli, o sulle foglie secche dell’acero in cima alla collina fuori casa. Ma la Natalina non voleva, che poi, diceva, sarebbero finiti all’inferno.
Perso nei ricordi e nei pensieri non si è nemmeno accorto di aver mangiato e non aver aperto bocca con i figli e con la moglie, di non averli neppure guardati negli occhi per un momento. Alza lo sguardo ed è di nuovo solo, lui con il camino caldo, l’odore di minestra e un paio di falene che girano attorno alla misera luce della lampada appartenuta a suo nonno. Si incammina verso il bagno, lasciando la tavola apparecchiata, tanto la Natalina sistema sempre tutto. Entra nel bagno sporco e polveroso.
Natalina non lo pulisce più. C’è stato un tempo in cui la moglie lustrava quel bagno con amore e orgoglio. Avevano comprato anche uno specchio piccolo e rotondo ed era bello guardarci dentro la mattina per cercare una ruga nuova in parte agli occhi o vedere i bambini che ci facevano le boccacce. Natalina puliva il bagno e mentre passava lo straccio pareva togliere lo sporco anche dal mondo intero, voleva renderlo più pulito e sicuro per i suoi figli, meno pericoloso per il marito, più luminoso per i suoi amori, anche per quelli passati. Una mattina il Giacomo, entrando in bagno, l’ha trovata che si specchiava, aveva un ciuffo di capelli che le cadeva sul viso; lui, dolce come non era mai stato, lo ha spostato, con le mani ruvide e callose, sistemandolo dietro ad un orecchio, e le ha accarezzato una guancia. Fu uno dei momenti più belli della sua vita e, chissà perché, si immaginò di nuovo piccola sulle spalle del padre che correva nel cortile tra le galline spaventate ed il cane che dormiva.
L’uomo si lava con l’acqua fredda ed il sapone ruvido. E pensa che questa sera farà l’amore con la moglie. Magari faranno un altro figlio e lo chiameranno Giovanni, come suo padre. Suo padre non sorrideva mai, parlava poco e beveva molto. Lavorava al linificio del paese e quando tornava a casa la sera aveva sempre in tasca un biscotto duro, preso chissà dove, che per morderlo doveva prima succhiarlo dieci minuti. Aspettava che il padre si togliesse la giacca e silenzioso prendeva il biscotto, sotto il suo sguardo severo. Di lui non ha nemmeno una fotografia. Ma ricorda, ancore adesso, il sapore di quel biscotto, il suo profumo ed il rumore che faceva sotto i denti. Non era buono, ma è l’unico ricordo vivo che ha del padre, l’unico odore al mondo che gli ricorda quell’uomo che non sorrideva mai. Entra in camera da letto con i mobili scuri ed il Cristo appeso. Un segno della croce veloce, quasi si vergognasse di quel gesto e si infila sotto le coperte lisce e fredde. “Natalina vieni, che domani mattina mi devo alzare presto!”. I figli, probabilmente dormono già, nell’altra cameretta con la porta sempre chiusa e la finestra sempre aperta. Giacomo vuole aspettare la moglie, che sarà nel bagno a sistemarsi per la notte. Gli occhi sono pesanti e il respiro si fa più lento. Dorme ora il Giacomo, dorme e sogna di fare l’amore con Natalina.
Quando si sveglia, allunga un braccio verso la moglie. Ma lei si è già alzata, al sua metà del letto è fredda e ordinata. I figli dormiranno ancora un paio d’ore.
Una colazione veloce e silenziosa. Un grosso pane con del formaggio da mangiarsi verso metà mattina, una bottiglietta di spuma mista a vino rosso e Giacomo è pronto ad un’altra giornata di duro lavoro alla diga. Prima di uscire si volta verso la porta del bagno dove un rumore attira la sua attenzione, pensa ad Ettore, il primogenito con i capelli ricci e le gambe magre, che vorrebbe fare il paracadutista. Richiude la porta e rimane qualche secondo con la schiena contro il legno bagnato dalla rugiada della notte. Il cielo è di un azzurro pallido, come gli occhi dolci di sua figlia Anna. Una volpe fugge lontano. La diga lo aspetta, lo chiama. Lui obbedisce. Il sentiero che conduce alla diga l’ha percorso migliaia di volte, con la pioggia e con la neve, con il sole e con la nebbia. Una volta ha contato i passi, ma era un numero troppo grande e difficile da ricordare.
A metà strada un cespuglio di rododendro nasconde una croce, piccola e di ferro arrugginito. Sotto la croce una targhetta di legno con una scritta ormai sbiadita. Tre nomi, una donna, una bambina e un bambino, tre età e una sola data.
Giacomo passa accanto alla croce, la guarda distratto, strappa qualche ramo di rododendro, pulisce la targhetta di legno senza leggerla. E prosegue.
La diga lo aspetta.

“La demenza non può riconoscere sé stessa, nello stesso modo con cui la cecità non può vedersi” (L. Apuleio)

 

 

Un Nuovo Risveglio
di Will

Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj,
Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean;
sono tutti morti. I grandi libri sono stati scritti.
I grandi detti sono stati pronunciati.
Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta,
anche se io stesso non capisco bene cosa stia succedendo

Bob Dylan

D’altra parte anche le fantastiche montagne senza gli uomini,
grandi o piccoli che siano,
rimangono mute, inerti, senza senso.
Ecco, sono proprio loro, gli uomini,
con la loro umanità
a dare un’anima ai vertici emergenti di roccia e ghiaccio
su quali rincorrere i propri sogni.

Armando Aste

Sono bastati un bicchiere di Genepì e la simpatia di Marco Blatto a dirottare la mia attenzione verso Gian Piero Motti. Non è che il personaggio mi fosse sconosciuto ma fino ad ora, nessuna scintilla aveva risvegliato in me la voglia di leggere i suoi scritti, che sono in parte, un manifesto del “Nuovo Mattino”.
Ed è così che anziché sfogliare il libro presente al terzo ripiano della mia libreria, decido di far impazzire un simpatico bibliotecario nella ricerca di qualche vecchio numero della Rivista della Montagna, ormai coperto da uno strato di polvere. Quello che mi capita tra le mani è uno dei suoi scritti più importanti: “L’ultima avventura” è una sorta di testamento spirituale. Resto intrappolato dalla lettura al punto di non accorgermi che le lancette dell’orologio hanno segnato l’inizio di un nuovo giorno. E’ con la frase “Io vorrei solamente un alpinismo più umano” che i miei occhi finalmente si chiudono.
Da qualche tempo cerco un significato più ‘intimo’ alla parola “alpinismo”. Non basta la definizione del dizionario Zanichelli; non si tratta solamente di salire cime in ambienti talvolta sconvenienti. Esiste un significato più profondo dietro quelle nove lettere perfettamente allineate.
Esplorazione, Amicizia e Divulgazione. Con queste tre semplici parole Diego Filippi riassume le sue scelte e il suo percorso verticale.
‘Esplorare’ è sinonimo di scoprire ma è al tempo stesso è la capacità di avere occhi sempre diversi ogni qualvolta si guardi una parete o si riempia lo zaino di moschettoni e corde. ‘Amicizia’ è la parola d’ordine per indossare un’imbraco. ‘Divulgazione’ è il dovere di lasciare la propria traccia, magari tralasciando difficoltà e chiodature, e dando spazio a emozioni e sensazioni.
E’ l’ennesima salita alla Pietra di Bismantova a rimarcare il significato del mio “alpinismo”. La linea corre verticale pochi metri a destra della classicissima Oppio, ma sino a oggi non molte persone l’hanno salita.
Le informazioni in nostro possesso sono povere e incomplete ma conosciamo l’alfabeto di Giancarlo Zuffa e raggiungiamo l’attacco con zaini pesanti. Questo posto è sempre affascinante; le linee che percorrono questa parete salgono a goccia d’acqua verso il nulla.
Con passo lento e sicuro Diego inizia la salita piantando diversi chiodi che poi lasceremo. Forse un giorno ci sarà qualcuno che verrà fin qua per alzare il naso: qui tutto è stupore e meraviglia.
Nel progredire qualche antico chiodo riaffiora e senza fatica resta tra le mani di chi li accarezza. La roccia è insicura e una buona dose di sangue freddo è fondamentale per respirare.
La seconda lunghezza è notevolmente più impegnativa e dei vecchi cunei di compensato dall’aspetto poco rassicurante sono la fotografia di una pagina importante di questo luogo.
La parete ci terrà prigionieri per otto lunghe ore nonostante le poche lunghezze di corda. La soddisfazione è notevole quando con Diego e Alessandro raggiungiamo la soffice sommità.
Liberati dai chiodi, dal martello, dai friend e da altre diavolerie, sdraiati, guardiamo il cielo e le nuvole.
Un’aria calda sfiora le nostre facce mentre il sentiero ci riporta all’8 marzo del 1969 e ai volti di Giancarlo Zuffa e Nino Lenzi.
“Senza il ricordo e senza storia non si vive, si abbozza solamente una sorta di sopravvivenza”, con queste parole un amico, che oggi si sporca le mani tra le strade di Cochabamba, chiudeva una sua lettera. La voglia di conoscere Giancarlo Zuffa e riportarlo alla Pietra ad arrampicare aumenta notevolmente quando Ginetto Montipò mi confida di aver perso i contatti con lui da circa quarant’anni.
Lanciamo i dadi e prima che smettano di girare ricostruiamo la storica cordata con una ‘passeggiata’ sulla via Pincelli-Brianti in un weekend d’inizio ottobre.
Con l’occasione incontro finalmente anche Marco Barbieri e altri “Alpinisti del Lambrusco”, finalmente sento il loro tono di voce. E’ l’ennesimo regalo che ricevo da queste pareti silenziose che ancora conservano il mistero della scoperta e dell’esplorazione. La salita della Rampa della Sassaia è solo la prima di tante avventure verticali che condivideremo.

 

10 Anni
di Will

E’ buio e la lampada frontale emette un fascio di luce debole. Sono uscito di fretta, all’ultimo minuto come mio solito e le batterie di ricambio sono rimaste sulla scrivania. Non serve molta luce, stiamo camminando sull’asfalto della vecchia strada che da Alzano sale all’abitato di Burro. Le macchine qui non passano più da anni e la corsia è abbastanza stretta.
Sta piovendo e il rumore dell’acqua che mi circonda mi regala un piacevole senso di rilassamento.
Al mio fianco c’è Luca e poco più indietro altri amici. Siamo in tanti ma saliamo in ordine sparso, ognuno con il suo passo.
Noi siamo tra gli ultimi del gruppo e tutto sommato non mi dispiace. Aumento o diminuisco il passo come più mi aggrada perché questa sera non c’è fretta.
Prima di intravedere le luci delle prime case ricevo una telefonata ma fortunatamente non si tratta di lavoro. E’ amico che ci sta raggiungendo.
Non appena entro nella piccola frazione la pioggia aumenta, qualcuno cerca riparo sotto il porticato della chiesa, dove un presepe illuminato attira l’attenzione anche di chi ha smesso di credere.
Ci fermiamo per una ventina di minuti, giusto il tempo di ricomporre il gruppo. Riconosco qualche vecchio amico che non vedevo da tempo e solo allora prendo coscienza che sono trascorsi 10 anni.
La camminata continua, ora lungo un sentiero umido e scivoloso. Qui un paio di signore che indossano calzature poco adatte progrediscono con difficoltà. Dopo una ventina di minuti raggiungiamo una piccola grotta, posta in corrispondenza di un tornante. Una madonnina addossata alla parete pare dominare la valle. Intorno a Lei ci sono diverse fotografie, alcune vecchie e sbiadite; dall’altra parte della grotta c’è la fotografia di Livio. E’ stata posata in disparte, quasi a voler dipingere la sua personalità su questa parete di calcare: quella di un ragazzo schivo, silenzioso e deciso.
Intorno si radunano gli amici, ne ho contati più di ottanta prima di perdere il conto. Mi metto in disparte alla ricerca di un po’ d’intimità: questa sera ne avverto il bisogno. Paolo si avvicina e mi offre del tè ma non si accorge che i miei occhi sono completamente rossi.
Qualche parola, qualche canto, qualche saluto e la gente inizia a ridiscendere. Io resto li, immobile, quasi paralizzato.
Solo quando gli amici sono ormai lontani mi decido ad avvicinarmi alla fotografia e salutare l’amico. Respiro profondamente e in un lampo vedo scorrere anni di vita, di amicizie, di viaggi, di pareti, di arrampicate. Il tempo non si è proprio fermato. Quando ripenso alla Val di Daone e al terribile 26 dicembre 2005 ho immagini chiare, precise, lucide. Ho sempre l’impressione che tutto sia accaduto l’altro ieri ma non è così. Stasera più che mai ne prendo coscienza. Mi rendo anche conto che gli insegnamenti che ho ricevuto da Livio, dapprima come direttore del mio corso di roccia e poi come compagno di cordata, mi hanno sempre accompagnato, sia in parete che nella vita.
E tutto ciò è fantastico.



 

Mondi Paralleli
di Omar

Ho letto di una curiosa teoria scientifica secondo la quale esisterebbero infiniti universi paralleli, ciascuno con la propria storia i propri fatti, i propri protagonisti. Questi universi non sarebbero collegati fra loro. Normalmente. Ma esisterebbe una remota possibilità di porli in comunicazione tramite tunnel spazio-temporali.
In uno di questi universi, la mia sveglia suona presto questa mattina. Molto presto. Come del resto capita spesso in questi ultimi mesi. Cerco di bloccarne l’odioso ed odiato bip-bip prima che questo si riversi in tutta casa, ma soprattutto prima che giunga in cameretta di nostro figlio e lo svegli dal suo sonno innocente.
Tommaso ha otto mesi, pochi capelli , nessun dente e gli occhi verdi di sua madre.
Mi alzo e non oso nemmeno sbirciare nel suo lettino per paura che mi veda o mi senta ed inizi a protestare per essere tolto dal lettino e preso in braccio a gironzolare per casa.
Lo intravedo dormire con le braccia in alto e i pugnetti chiusi. Il viso rilassato e dolce di tutti i bambini che dormono tranquilli ed al sicuro.
Faccio colazione nel massimo del silenzio ed esco di casa furtivo come un ladro, nella speranza che il rumore della serratura della porta non rovini tutto quello fatto fin’ora.
L’aria fresca del primissimo mattino mi investe all’improvviso, mi mette allegria e voglia di camminare. Il tempo è bello e le ore a disposizione sono poche. Meglio muoversi.
Appena varco la soglia di casa, esco dal mondo che mi appartiene: quello di questo universo. Un mondo fatto di lavoro, amori, impegni, traffico, rumori, di tasse e di compleanni, di amici e di persone indifferenti. Entro così nell’altro universo, quello parallelo, dove c’è un altro mondo al quale non appartengo, ma che mi ostino con tutte le forze a sentire mio. Un mondo fatto di silenzi, di freddo e vento, di rocce e fiori, di fatiche e di gioie. Un mondo con pochi amici fidati, con la neve ed il sole, pieno di salite e di discese infinite.
Pochi chilometri in auto. Scarponi, zaino e si comincia.
Il percorso è agevole e lascia la possibilità al pensiero di vagare verso altre mete ed altri destini.
Raggiungo la mia cima odierna, che forse non aggiunge nulla al panorama delle salite che ho fatto e che farò. Probabilmente non la ricorderò nemmeno tra qualche mese o, peggio, tra qualche anno.
Torno a casa e apro la porta. Torno nel mio mondo.
Tommaso mi viene incontro, allegro e vociante. Mi abbraccia forte una gamba e mi chiama per nome “papàomar”, tutto attaccato. “sei tornato?”. Bacio mia moglie e poi prendo in braccio la piccola peste scalciante.
Oggi la peste compie quattro anni.
Qualche cosa non torna. Sono uscito di casa questa mattina ed al mio ritorno sembra che siano passati quasi mille giorni. Mi chiedo dove sono stato e cosa ho fatto. Ma soprattutto perché. Tommaso mi chiede:”Sei stato in montagna? La prossima volta posso venire con te?”.
“Ma tu eri con me!”
“No…ero a casa con la mamma”.
“Tu sei sempre con me”.
Poi lo guardo e nei suoi occhi, che ora non sono più verdi, ma scuri e rivedo me stesso da piccolo, la stessa espressione, gli stessi capelli, la stessa voglia di correre e saltare, la stessa curiosità e, forse, le stesse paure.
Dove sono stato? Dove ero quando ha imparato a camminare? Quando ha detto “mamma”?. Con chi ero quando ha tolto le rotelle della bicicletta? Quando è stato il suo primo giorno all’asilo? Ed il primo dente, il primo livido, la prima volta che mi ha sorriso. Su quale inutile cima ero quando ha imparato a nuotare? E perché non ero accanto a lui alla prima cacca nel vasino? O dopo il suo primo incubo.
Poi tutto è chiaro, limpido come i cieli sopra le mie camminate, come l’acqua che ho bevuto, come la neve che ho calpestato: io c’ero, ci sono sempre stato, anche alla prima cacca. C’ero quando ha tolto le rotelle, quando poi è caduto e si è rialzato; quando è nato il primo dentino e poi mi ha morso; quando ha nuotato in piscina dei nonni e mi ha fatto la pipì addosso; quando ha detto “mamma” ed io sono rimasto male. Quando mi ha sorriso ed io ho pianto.
Intanto, mia moglie mi guarda e mi chiede se sto bene. “Tutto bene” rispondo. “Strano, guardi tuo figlio come se non lo vedessi da anni. Sembri stato in un altro mondo”.
“Non sai quanto è vero” penso tra me.
Forse i tunnel spazio-temporali esistono veramente; ed allora due universi possono unirsi. Possono convivere. Due mondi possono esistere contemporaneamente.
Ogni tanto.

“E i nostri figli se ne andranno per il mondo.
Come fogli di carta.
Sopra a lunghi stivali silenziosi.
E li avremo già persi.”
Roberto Vecchioni

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L'ultima estate da bambino
di Omar

Ancora non lo sapevo, ma quella sarebbe stata la mia ultima estate da bambino: spensierata ed innocente.
La trascorsi proprio così, in maniera spensierata ed innocente, senza sapere che di lì a poco tutto sarebbe lentamente cambiato e nulla sarebbe rimasto come prima. O quasi.
Nel giro di poco tempo sarebbero arrivate le scuole superiori, nuovi compagni e nuovi amici, sarebbero arrivati i compiti in classe, le interrogazioni, l’ansia, i primi sabati sera fuori di casa; poi la macchina, le prime ragazze, le discoteche e le troppe birre; il sesso, il militare, la nostalgia di casa, l’università, il lavoro, le prime rinunce, la morosa, il matrimonio; sarebbero arrivati i figli, le notti in bianco, la responsabilità di far crescere qualcuno. Sarebbero arrivate anche le prime brutte notizie, i lutti, i primi acciacchi, le delusioni. Sarebbero arrivate le gioie e le lacrime, gli amici che se ne vanno quelli che rimangono, le cene per ricordare e le cene per dimenticare.
Sarebbe arrivato tutto questo, ed ancora di più. Ma io, allora non lo sapevo e mi godevo l’estate come se fosse un periodo infinito.
Quell’anno, con la mia famiglia, ce ne andammo per l’ultima volta in villeggiatura (all’epoca di si diceva così…) a Piazzatorre, come gli anni precedenti, come da sempre mi ricordassi.
Si partiva con l’auto strapiena di tutto quello che potesse servire per tre settimane in un appartamentino troppo piccolo per tutti noi, ma che a me sembrava enorme e pieno di profumi e colori che ancora adesso ricordo. Alla guida c’era mio papà, con a fianco la mamma e dietro io tra i miei due nonni materni. Sul tetto dell’auto, un gigantesco portapacchi in ferro con le valige, le sdraio, le stoviglie e tutto il resto legati con lunghissimi elastici. Il viaggio durava meno di un ora, ma a me sembrava eterno e mi preparavo giorni prima con giornalini e giochi per passare il tempo in auto.
L’appartamento si trovava, meglio si trova ancora adesso, sopra al negozio del macellaio del paese ed era al terzo piano di una piccola palazzina nel centro del paese. Aveva anche un terrazzino sul quale si poteva prendere il sole e vedere le montagne vicine vicine. Nella credenza della cucina c’era odore di pane raffermo e caffè tostato; un odore che ancora adesso ricordo perfettamente e che è presente anche nella cucina di mia mamma. Ancora adesso a volte, quando vado dai miei, apro la porta della credenza e respiro quel profumo che mi riporta alla mia infanzia, meglio di mille fotografie.
A Piazzatorre tutti i giorni erano uguali. La nonna cucinava e teneva in ordine,poi lavorava per ore intere con i ferri e gli aghi della lana, mia mamma la aiutava ed intanto chiacchieravano; mio papà saliva solamente il sabato e la domenica, nel resto della settimana tornava a casa e lavorava. Aspettavo il sabato mattina che tornasse e sentivo il rombo della sua auto qualche tornante prima del paese; scendevo di corsa e lo aiutavo a portare su le provviste per la settimana.
La maggior parte del tempo la trascorrevo con mio nonno. La mattina andavamo a comprare il pane ed il giornale. Poi si andava fino alla pista di pattinaggio, in alto , quasi alla fine delle case. Il pomeriggio era dedicato alla passeggiata nei boschi, ripidi e fitti, ricchi di abeti e mirtilli. Raccoglievamo la resina che, diceva lui, fa bene per i dolori e per la tosse. Non ho mai capito come si dovesse usare per guarire dai dolori e dalla tosse. Ma ancora adesso quando cammino tra abeti e conifere, ripenso a lui e a quell’odore aromatico e magnetico. La raccoglievamo dai tronchi più vecchi con un coltello e la mettevamo in un barattolo di vetro che poi consegnavamo alla nonna e da lì in poi tutto diventava segreto e misterioso. Ogni tanto si cercavano i funghi, ma sempre con scarsi risultati ed allora ripiegavamo sui mirtilli, fino a riempirci la pancia. Ogni tanto andavamo a mangiare il gelato alla gelateria sotto i portici, davanti al piccolo campo da tennis. Aveva i coni su cui potevi mettere tre palline separate, di tre gusti diversi e c’era sempre la fila, ma noi aspettavamo pazienti e poi prendevamo pistacchio, nocciola e panna, che adesso si chiama fior di latte, ma è uguale.
La sera faceva sempre freschino e la mamma mi metteva il maglione prima di fare una passeggiatina tutti assieme. Spesso andavamo in un negozio sotto i portici che vendeva oggetti esotici,provenienti da chissà quali paese del mondo orientale, adesso si chiamerebbe merce etnica; ci trovavi spade, zoccoli di legno, tessuti di seta, strani contenitori per spezie e profumi, scudi ed oggetti di giada, corallo ed avorio. Nell’aria c’era un fortissimo odore di incenso e cuoio, di sandalo ed artemisia. La proprietaria, dai lunghi capelli corvini sempre spettinati, controllava che nessuno combinasse guai e pareva mal sopportare la presenza di gente nel suo locale. Credo che ogni volta che uscissimo dal negozio lei tirasse un profondo sospiro di sollievo.
C’era una colonia estiva a Piazzatorre, una di quelle dove i bambini trascorrevano l’intera estate tra aria sana e giochi, tra compiti e preghiere. Aveva una aspetto tetro e severo, nonostante le risate e le grida delle decine di bambini che vi soggiornavano. Fuori aveva un alto cancello con le punte di ferro e la facciata era piena di strette finestre sbarrate. Mi faceva paura. Una paura atavica. Sapeva di abbandono e solitudine, di mensa rumorosa e di ragnatele negli angoli delle stanze. La mamma, a volte, minacciava di portarmi alla colonia se non avessi fatto il bravo. Ed io ammutolivo e mi mettevo a piangere anche al solo pensiero di essere portato in un posto simile. Ancora oggi, se ci ripenso ricordo i colori, le forme e i rumori di quel luogo e la mente rivede immagini di muri incrostati e cene a base di zuppa e carote.
La domenica mattina, dopo l’arrivo di mio papà, l’intera famiglia saliva alle Torcole, una bellissima e panoramica altura erbosa posta sopra il limite dei fitti e scuri boschi di abeti. Lì ci rilassavamo, pranzavamo all’aria aperta, qualcuno prendeva il sole, altri passeggiavano. Io mi avventuravo tra l’erba alta mossa dal vento , sotto lo sguardo vigile di mio nonno. Per salire alle Torcole si utilizzava la temutissima bidonvia: una specie di funivia al cui cavo erano appese delle pochissimo raccomandabili cabinette a due posti: dei veri e propri secchielli colorati, completamente aperti dalla vita in su. Per salire su questi bidoncini appesi, si doveva correre al loro fianco per una decina di metri, mentre l’addetto alla stazione di valle ne apriva la porticina e ti aiutava a saltarci sopra e poi con una forte manata chiudeva il cancelletto del bidoncino. Lo faceva con un gesto violento, quasi arrabbiato e tu che già eri spaventato dalla situazione, ti sentivi quasi colpevole della sua rabbia. Si saliva con l’aria fresca sulla faccia. La bidonvia sfiorava le punte degli abeti più alti e gli odori del bosco salivano fino a noi. In una decina di minuti o poco più venivamo scaricati, nel vero senso della parola, dall’addetto alla stazione a monte che inseguiva il bidoncino, apriva il cancelletto e ti strattonava giù da esso.
Anche ora, se chiudo gli occhi, mi rivedo sulle spalle forti di mio padre, aggrappato ai suoi capelli, mentre scendiamo a salti e balzi i ripidi prati delle Torcole tra le mie grida di gioia e le sue canzoni a squarciagola. Durante la corsa in discesa tutto si confonde, le immagini vanno veloci il suono del vento nelle orecchie, i profumi dei fiori e delle’erba, le nuvole bianche nel cielo blu, il verde e il giallo dell’erba; mia mamma al sole, mio nonno con il fazzoletto bianco in testa, il cane del pastore che abbaia le mucche al pascolo. Più scendiamo e più mi avvicino alla fine della mia estate; più corriamo e più divento grande, più il vento fischia più mio padre invecchia; più ridiamo più perdo la mia innocenza.
Come vorrei risalire lassù . Per un’ultima corsa a perdifiato, giù, tra i fiori, tra le mucche, il cane che ci rincorre, mia nonna che lavora a maglia , mia mamma che si abbronza, e mio nonno che fuma. Giù fino alla fine del prato dove bere un bicchiere di vino con mio padre.

Dedicato a mio nonno, al quale non ho saputo restituire il tempo che lui ha regalato a me.

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I tre re di Affi
di Will e Alessandro Spinelli

È ormai sera quando i tre trovano finalmente riposo in un fast food vicino al casello autostradale di Affi, unico rifugio aperto che li obbliga a soprassedere alle passioni per il cibo “lento” e a rimpiangere l’osteria di cui Diego tesse le lodi sin dal mattino. Il fatto che dette lodi siano riferite ad aspetti non propriamente gastronomici della padrona non fa che aumentare il rimpianto. L’atmosfera è tuttavia euforica: sono usciti dalla nuova via, anche se resta da sistemare l’ultimo tratto, e devono solo deciderne il nome.
La giornata era trascorsa velocemente lì sulla Pala bassa, così vicino al traffico autostradale eppure così lontano, tra il freddo pungente e le stalattiti di ghiaccio, con lo sguardo che alterna un’occhiata alla Valdadige nobilitata dalla neve recente ad una alla batteria del trapano, quasi a volerne divinare la carica residua. Oggi Diego non era con gli altri due, e questo – pensano – è l’unico neo della giornata: complice un dolore alla schiena, preferirà restare alla base a ripulire il primo tiro ed il sentiero, mentre Matteo ed Alessandro affronteranno la seconda parte della via, con divisione quasi tayloristica del lavoro. Armati fino ai denti di trapano, batterie, fix, chiodi, rinvii e staffe, raggiungono con fatica la sosta sotto il tetto, lungo il bel tiro chiodato da Diego nella loro prima visita alla parete. Buttati a valle un po’ di massi instabili e fatta pulizia, è il momento di Matteo: parte carico di materiale e prosegue nel duro, lento e metodico lavoro di chiodatura del forte strapiombo. In sosta si gela, Alessandro lo vede salire lentamente e ogni minuto gli sembrano ore. Poi gli sforzi di Matteo trovano giusta ricompensa: lo strapiombo lascia il passo ad una parete verticale e ad una cengia: il posto perfetto per attrezzare una sosta. Matteo cambia la punta del trapano, ma la batteria si arrende esausta. La sostituisce, completa il lavoro ed inizia il recupero di Alessandro, che si contorce alle prese con il suo primo “vero” strapiombo in artificiale. Diego, sempre più indaffarato, si gode la scena dal basso.
In sosta, i due si consultano: il freddo ha ridotto la carica della seconda ed ultima batteria e non c’è molto tempo prima dell’arrivo del buio. Il programma originale, che prevedeva di chiodare un tiro a testa, salta: prosegue Matteo, più rapido nella chiodatura, in lotta contro il tempo. A destra c’è un diedro erboso che forse offre una via d’uscita, lo punta ma anche la seconda batteria si esaurisce prima di raggiungerlo. Si improvvisa una sosta ed i due si ritrovano. Calarsi è problematico, le scarpette da arrampicata sono rimaste in auto, il cielo vira ormai al color della sera. È il turno di Alessandro di superare in arrampicata i pochi metri di roccia friabile e sporca per raggiungere il diedro, dove alcuni arbusti non troppo solidi offrono una protezione simbolica e permettono di procedere con cautela tra roccia e fango.
È ormai buio quando la cordata si riunisce sulla sommità, ma non è ancora tempo di festeggiare. Diego al telefono istruisce sulla discesa. La sosta di calata della via Gem85 è vicina, ma ormai non si vede quasi più nulla, i due sono carichi di materiale, non hanno le frontali e non se la sentono di avvicinarsi allo strapiombo a cercare la sosta. Unica alternativa: salire per rocce rotte e rovi tenendo la sinistra fino ad incontrare il sentiero che porta alle vie di arrampicata. La progressione è lentissima, la stanchezza si fa sentire, il percorso è da inventare con infiniti va e vieni alla luce dei cellulari; solo il morale è alto. Si scherza su un bivacco sul Monte Cimo, a poche centinaia di metri dalla “civiltà”. Poi, finalmente, un’enorme massa si para davanti: la Pala del Boral con il sentiero che la costeggia. Il chiacchierare si fa più allegro ed intenso ora, mentre percorrono il noto sentiero. Al parcheggio, dopo gli abbracci di rito, compaiono due lattine di Coca Cola che suggellano la fine dell’avventura, tra le rimostranze di chi avrebbe preferito una bevanda diversa.
È venerdì sera ed il fast food è pieno di famigliole. Lì hanno capito benissimo che per attirare questa clientela devono predisporre giochi ed attrazioni per bambini, e tra le cianfrusaglie fanno capolino delle corone di cartone disseminate sui tavoli. Dopo una pizza e una (o due) birre, i tre se ne impossessano. Le provano e scattano un paio di fotografie con espressioni assai poco regali. “Come vogliamo chiamare la via?” “Ovvio: i tre re di Affi!”.
Successivamente, dismesse le corone cartacee, i tre sono tornati a raddrizzare l’ultimo tiro e chiodare il corto tiro iniziale già ripulito da Diego.
 

 

Il bacio della morte
di Will

Il violento temporale si è spostato sui Campanili del Latemar ma la gente è ancora barricata all'interno del rifugio Vajolet con i propri pensieri. Qualcuno non trattiene la gioia di aver finalmente salito la Steger al Catinaccio, salita che da anni custodiva tra i sogni più preziosi. Qualcun altro invece esterna preoccupazioni lavorative. C'è un sacco di gente nella sala da pranzo, i vetri delle finestre, non troppo spessi, sono carichi di umidità. Sento la necessità di allontanarmi da questo vociare continuo, sento la necessità di prendermi del tempo per me. Esco senza dare nell'occhio e la piccola tettoia del vicino rifugio Preuss sembra fare al caso mio. Lo sguardo cade verso la Punta Emma e le più lontane Torri del Vajolet. La luna accarezza le loro rocce ancora completamente fradice. Questa sera ci vorrebbe una sigaretta a farmi compagnia.
Quanta storia su queste pareti; chissà se i chiassosi clienti del rifugio ne conoscono anche solo un pezzettino. Sarebbe bello raccontare loro di quando Steger e sua moglie Paula, stavano attaccati alla parete Est del Catinaccio nell’attesa di riuscire finalmente a terminare la via e di come Mary e Vittorio Varale dal basso portavano loro un po’ di sostegno, oppure, di quando Tita Piàz prese Emma Della Giacoma, la “sguattera” del rifugio e la trascinò in vetta a quella punta che sorge proprio di fronte a me e che da allora porta il suo nome. O ancora quando Winkler salì la “sua” torre; per non parlare poi della fessura che costò una ritirata al povero Piàz perché aveva scarpe malandate ai piedi.
Mentre ripenso alle storie e alle vite che si sono incrociate su queste rocce, non posso far a meno di rivivere le emozioni forti che pochi giorni fa mi hanno accompagnato durante l’apertura di una nuova via in artificiale moderno in Vallarsa.
Il mio sguardo si perde lentamente nelle tonalità del cielo quando sopraggiunge l’urlo dei compagni di cordata a ricordarmi che domani, la sveglia suonerà presto.

Natale 2018. Sono passati diversi mesi da quando Matthias ed io abbiamo salito “Il Bacio della Morte”. Altrettanto tempo è passato da quando, in Catinaccio assaporavo le forti emozioni che avevano caratterizzato quelle tre giornate di apertura. Le fatiche dei sacconi pesanti sono ormai dimenticate così come i dolori alla schiena causati dalle scomode soste.
Ora dentro di me c’è qualcosa di sedimentato e di difficile da dimenticare e da comunicare. Il nome tetro della via e le difficoltà che abbiamo superato hanno tenuto lontano i ripetitori. Diversi amici ci hanno chiesto informazioni ma a oggi, nessuno è andato a metterci il naso.
Salire cinque lunghezze di corda ci ha richiesto parecchie energie. In artificiale il tempo perde il suo senso e una nuova dimensione s’impadronisce di chi si diverte a giocare con il vuoto e la precarietà. E’ una via dove tecnica e delicatezza si fondono e divengono essenziali per guadagnare piccoli tratti. Tutto è annientato. La terza lunghezza è certamente la più bella. Abbiamo scelto di non affrontare direttamente il tetto che la caratterizza ma di aggirarlo verso destra sfruttando una fessura sospesa. Entrambi abbiamo percorso un tratto da capocordata per assaporarne equamente il gusto. Un gesto prezioso da parte del mio compagno di cordata che per primo aveva adocchiato la possibilità di compiere questa salita. E’ la condivisione ciò che più mi aiuta a crescere quando vado in montagna.
Al termine della salita un prato perfettamente tagliato ci ha accolto. L’erba soffice ci ha permesso di sdraiarci e guardare il cielo. Il silenzio della notte ha iniziato a parlarci, i nostri occhi hanno ascoltato attentamente e le nostre menti memorizzato tutto. La fatica del rientro ci ha riportato al quotidiano, fondamentale per assaporare l’infinito.
Credo che andrò avanti ancora un po' ad andare per monti, dopotutto.